Trent’anni e non sentirli

Vi capisco, anche a me quando dicono “trent’anni fa” viene da pensare ai primi anni Settanta. Ma in realtà oggi sono esattamente tre decadi da quella giornata incredibile in cui Giorgio Lamberti conquistò il titolo europeo a Bonn stabilendo, primo italiano maschio e secondo in assoluto dopo Novella Calligaris, il titolo mondiale dei 200 stile libero.

1.46.69. Nel 1989. Con lo slippino e la cuffia di gomma. Un tempo siderale, destinato a durare dieci anni e ad essere migliorato di soli due centesimi da Grant Hackett nel 1999. In quella stessa edizione il nuotatore bresciano si concede una frazione lanciata da 1.45.53 nella 4×200 d’oro insieme a Roberto Gleria Massimo Trevisan e Stefano Battistelli e titolo e record continentale dei 100 stile libero (49.24).

Due anni dopo arriverà lo storico titolo mondiale di Perth, e poi purtroppo l’epilogo prematuro di una carriera straordinaria. Un nuoto analogico, di cui rimane traccia più nella memoria che sui supporti, e che ci facciamo raccontare dal protagonista a margine dei recenti Campionati italiani di categoria.

Bio

Giorgio Lamberti è nato a Brescia il 28 gennaio 1969.
Campionati Mondiali: 1 oro – 3 bronzi
Campionati Europei: 3 ori – 3 argenti – 3 bronzi
Campionati Italiani: 33 ori – 7 argenti – 4 bronzi
Allenatori: Pietro Santi – Alberto Castagnetti
Dal 2003 al 2008 è stato Assessore allo sport del Comune di Brescia.
Attualmente è Presidente del consiglio di amministrazione di Centro Sportivo San Filippo SPA e di G.A.M. Team SSD a RL.
Sposato con Tanya Vannini (nuotatrice azzurra, un bronzo europeo e 15 titoli italiani), hanno tre figli: Matteo (1999), Michele (2000), Noemi (2004).

AQA: Che ricordo hai del tuo WR? Di quella giornata straordinaria, e di tutto il percorso che ti ha portato a viverla.

Giorgio Lamberti: Il 1989 era un anno particolare, arrivavo dalla cocente delusione delle Olimpiadi di Seoul (eliminato in batteria nei 200 e 400 SL, NdR), che si erano concluse a settembre, e avevo ripreso la preparazione più tardi del solito, ad ottobre. Alberto Castagnetti, che mi seguiva dal 1987, aveva deciso di ritarare la preparazione facendo maggiore attenzione alle fasi di riposo e attuando una preparazione più accurata che mi aveva permesso di arrivare all’estate nelle migliori condizioni. Mi sentivo davvero bene, e a Bonn gestii tranquillamente le batterie scendendo con grande facilità sotto 1.50. Poi, la sera, il record. In realtà non puntavo al record, puntavo alla vittoria e a fare la gara su Anders Holmertz, che dagli anni delle nazionali giovanili non ero mai riuscito a battere. Ero in una condizione tale che lo controllai agevolmente per la prima metà gara, ai 130 lo staccai con un cambio di passo e chiusi in progressione, con quel record che divenne l’icona di un Campionato europeo che vide l’Italia protagonista con la mia doppietta, l’oro della 4×200 sconfiggendo le due Germanie per l’ultima volta separate e il titolo di Stefano Battistelli nei 200 dorso (il medagliere azzurro si completò con l’argento della 4×100 mista femminile e con i bronzi di Battistelli nei 400 misti, della 4×100 mista maschile, di Manuela Melchiorri nei 400 stile libero, di Manuela Dalla Valle nei 200 rana, della 4×200 femminile, per un complessivo storico quarto posto generale, NdR). Personalmente ritengo la frazione lanciata della 4×200, 1.45.53 con 0.31 allo stacco, la mia migliore prestazione di sempre e l’autentica fotografia della mia condizione in quell’evento. Il giorno dopo la staffetta arrivò il titolo con record europeo nei 100, che io in realtà non volevo disputare per risparmiare le forze nei 400 – tieni presente che all’epoca si disputavano le batterie anche con le staffette, non erano previste le riserve. Ne discussi a lungo con Alberto, che alla fine mi convinse a disputarli. Non ero convintissimo, mi presentai alle batterie senza cuffia e con gli occhialini da allenamento e chiusi in 49.4. A quel punto ero convinto di valere 48.8-48.9, in realtà la finale non andò completamente secondo le mie aspettative, una partenza non perfetta, grande turbolenza in acqua, mi aggiudicai comunque la prova con il record europeo che all’epoca valeva la terza prestazione mondiale. Festeggiamenti, euforia, premiazioni, controlli antidoping, e la mattina successiva ero uno straccio. Nuotai una batteria prudente con l’obiettivo di entrare in finale senza forzare, purtroppo lo stesso ragionamento l’aveva fatto anche… Anders Holmertz, che registrò il mio stesso tempo: ottavi a pari merito e spareggio. A quel punto non ne avevo più, tenni il passo dello svedese per metà gara e poi lo lasciai andare. Non gliene incolse granché, in finale rimase fuori dal podio. Così si concluse il mio Campionato europeo. Una performance di squadra straordinaria, che lasciò a tutti una grande euforia, della quale ricordo con particolare piacere il titolo conquistato con la staffetta: un momento di sforzo e di gioia collettiva indelebile.

AQA: Il triennio 1989-1991 rappresenta il primo grande exploit collettivo del nuoto azzurro dopo le imprese individuali e sporadiche di Novella Calligaris e Giovanni Franceschi, al quale non seguì però una consacrazione mediatica degli atleti, come accadde invece dopo Sidney 2000, l’altro grande turning point del nostro sport. Da cosa credi sia dipeso? Personaggi diversi? Un pubblico non ancora pronto? O che altro?

GL: Certamente oggi è tutto più amplificato. La mia generazione aveva memoria della sola Novella Calligaris, poi era arrivata la generazione di Giovanni Franceschi con i vari Paolo Revelli, Cinzia Savi Scarponi, che ci aveva entusiasmato e motivato a fare bene. Nel 1989 siamo arrivati noi e mi piace pensare che i nostri successi siano stati di impulso e ispirazione a chi è venuto dopo. Ricordo che nel settembre 1989 le iscrizioni alla scuola nuoto nelle piscine di Brescia raddoppiarono e penso che numeri simili si siano riscontrati in tutta Italia. Su quell’onda lunga sono arrivati i risultati ancora più importanti dei primi anni 2000: i successi di Domenico Fioravanti e Massimiliano Rosolino a Sidney, le vittorie di Emiliano Brembilla e Alessio Boggiatto. Ma chi ha davvero cambiato tutto è Federica Pellegrini, che ha rappresentato l’intero movimento nel momento in cui stavano cambiando tutte le regole della comunicazione, con l’avvento del digitale e dei social network. Negli ultimi dieci anni, sulla scia del devastante impatto mediatico di Federica, molti nuotatori sono diventati personaggi di successo sfruttando la nuova popolarità del nuoto, le proprie capacità comunicative e le competenze di staff professionali. Ai miei tempi non esistevano manager e procuratori, la gestione dell’atleta era affidata alla famiglia e alla buona volontà di qualche dirigente societario. Oggi c’è giustamente una maggiore attenzione al marketing e alla promozione dell’atleta e dei suoi risultati. Spesso anch’io mi chiedo come sarebbe andata se alla fine degli anni Ottanta avessimo avuto a disposizione gli strumenti e le professionalità di oggi. Noi comunicavamo con fax e telefoni fissi, i primi cellulari erano appannaggio di industriali e top manager.

AQA: Parlare di Giorgio Lamberti, e in generale di nuoto azzurro nel ventennio 1989-2009 significa inevitabilmente parlare di Alberto Castagnetti. Uscendo dall’agiografia che gli è stata costruita intorno e della quale sarebbe probabilmente il primo a sorridere, qual è il tuo ricordo dell’allenatore che ti ha portato al primato e poi al titolo mondiale?

GL: Il mio rapporto con Alberto Castagnetti data al 1986, quando lo conobbi sul bordo vasca in occasione dei Mondiali di Madrid, ai quali ero arrivato grazie al lavoro svolto alla Leonessa Brescia con vari tecnici, ultimo dei quali Pietro Santi: un allenatore straordinario che mi ha seguito dal 1980 al 1986, uomo di grande competenza e sensibilità che come molti allenatori dell’epoca si ispirava al modello americano basato su una programmazione molto accurata delle fasi di carico e scarico. Questo mi consentì di adattarmi con grande facilità allo stile di Alberto Castagnetti, presso il quale mi trasferii nel settembre successivo. L’incremento fu nella quantità di lavoro più che nella tipologia: maggiori chilometraggi, minori recuperi. Forse il trauma più forte fu l’inserimento dei doppi allenamenti, due mattine dalle 6.00 alle 7.30 prima della scuola: quando me li propose la prima volta pensavo scherzasse. Si trattò di un sacrificio, ma ben ripagato: mi avvicinavo al diciottesimo compleanno e sentivo che stavo crescendo nel fisico e nei risultati, che arrivavano sempre più confortanti. Forse l’unico errore fu “spingere” eccessivamente nell’inverno 1987-88, con il risultato che arrivai alle Olimpiadi di Seoul in condizioni non ottimali. Ma tutta la programmazione era stata interamente condivisa tra me e Alberto, quindi se fu un errore lo commettemmo insieme, tant’è che anche dopo la grande delusione olimpica (eliminato in batteria nei 200 e 400, a oltre due secondi dal suo personal best, NdR) la mia stima e fiducia verso di lui rimasero immutate. Nonostante molti cercassero di rompere il nostro binomio non mi passò mai per la testa di interrompere il rapporto: insieme avevamo vinto, insieme avevamo perso, insieme avremmo avuto la rivincita. Che arrivò nei tre anni successivi, e chissà quali altri traguardi avremmo potuto raggiungere insieme se le condizioni della mia spalla non mi avessero impedito di proseguire. Il grande pregio di Alberto era sicuramente quello di spiegare e condividere ogni fase della preparazione: montagna sì, montagna no, in una fase ancora pionieristica in cui si procedeva per prove ed errori. Lui era alla prima esperienza con un atleta dalle mie caratteristiche, io ero giovane e senza esperienza ad alto livello, ma abbiamo fatto cose importanti. La storia ha poi dimostrato la sua capacità di trarre il massimo da atleti con caratteristiche e specializzazioni differenti: Emiliano Brembilla, Domenico Fioravanti, un percorso che è culminato e si è purtroppo concluso con Federica Pellegrini. Era un uomo preparato e sensibile, con uno splendido carattere. Un aspetto di questo carattere che non tutti conoscono era la sua emotività. Era tremendamente emotivo, ricordo che nei giorni precedenti i 200 mi chiedeva continuamente come stavo, ma ero io che rassicuravo lui e non viceversa. Uscendo dalla vasca di riscaldamento prima della finale gli dissi “Tutto OK Alberto, siamo al top. Puoi rilassarti”. Era agitatissimo, un’agitazione legata alla voglia di rivincita dopo un anno difficile.

AQA: Lo hai anticipato tu stesso, ed è opinione comune fra gli addetti ai lavori che forse il miglior Giorgio Lamberti non siamo riusciti a vederlo, minato irreparabilmente dagli infortuni. Come si convive e si supera questo senso di incompiutezza?

GL: Con il carattere. Nessuno meglio di me in quel momento percepiva la mia forza la mia ambizione e le mie potenzialità, ero un atleta maturo abituato alla preparazione di alto livello, per certi versi ero “allenatore di me stesso”. Ma il mio fisico mi ha fermato, e ho dovuto farmene una ragione. Quello che mi ha aiutato è stata la consapevolezza, che ho sempre avuto sin dai primi anni della mia carriera, che il nuoto agonistico era una parentesi della mia vita, che avrebbe potuto essere più o meno lunga ma che avrei dovuto sapermi godere fino in fondo nonostante le difficoltà perché prima o poi si sarebbe comunque chiusa. Non è stato facile: mi sono ritirato ufficialmente nel 1993, avevo ventiquattro anni, mi sentivo al culmine della mia forza ma non ero in grado di allenarmi adeguatamente. Ho tentato tutte le cure possibili, ma senza esito, nonostante la vicinanza e il supporto della Federazione: ero stato coinvolto nell’organizzazione dei Mondiali di Roma 1994, nella seconda metà del 1993 mi ero trasferito a Roma dove alternavo il lavoro di ufficio con degli allenamenti nella piscina dell’Acqua Acetosa, in maniera discreta e lontano dai riflettori, per verificare le possibilità di un ritorno all’attività, e nella vasca ergometrica sotto la supervisione del compianto Franco Sardella. Alla fine dell’anno mi resi conto che non c’erano miglioramenti, e decisi che non era più il caso di insistere. Si era spenta la luce, si era spento il fuoco. Con grande serenità e consapevolezza decisi che in quel momento di concludeva la mia avventura sportiva. Ringraziai i dirigenti della Federazione per il supporto, proseguii il mio impegno nell’organizzazione dei Mondiali, un’esperienza altamente formativa e gratificante, e iniziai la mia nuova vita. Una scelta che a ventisei anni di distanza non rimpiango e che rifarei adesso, con la consapevolezza di non avere lasciato nulla di intentato.

AQA: Prendo un altro spunto che hai lanciato poco fa. Oggi siamo nell’era digitale: reti sociali, realtà aumentata, comunicazione mediata dalla tecnologia. Come tutto questo influisce sul rapporto atleta allenatore e come, secondo te, l’allenatore si deve porre rispetto a questo contesto?

GL: Io arrivo dall’epoca analogica e avverto la difficoltà di confrontarmi, come allenatore dirigente e genitore, con una generazione che vive online e che ha accesso in tempo reale a una quantità illimitata di informazioni. Questo conduce facilmente a perdere il senso della misura, nella ricerca spasmodica di risultati, tempi, classifiche. Generalmente osservo che la maggior parte dei ragazzi arriva comunque ad avere un rapporto equilibrato con il digitale e a sfruttarlo positivamente anche per promuovere la loro immagine. È una realtà che mette a dura prova l’educatore, sportivo e non, perché spesso i ragazzi chiedono spiegazioni e chiarimenti su argomenti dei quali sanno in realtà più dell’allenatore o del genitore: una bella sfida, che richiede grande attenzione e sensibilità per governare dinamiche sociali che sono sempre esistite ma che le nuove tecnologie hanno accelerato a dismisura.

AQA: In chiusura, una domanda inevitabile: hai tre figli  che nuotano, e nuotano forte. Come fai a preservarli dal peso di un nome che ha fatto la storia del nuoto, e come riesci a conciliare il ruolo di icona con quello di genitore tecnico e dirigente?

GL: Il problema c’è, ed è duplice, perché oltre al mio devono gestire anche il cognome della mamma, che è altrettanto “pesante”. Se dai ranking 1986-1988 togli i nomi delle atlete dopate del blocco sovietico ti accorgi facilmente che quella di Tanya è stata una delle migliori nazionali femminili di sempre: Manuela Dalla Valle, Silvia Persi, Lorenza Vigarani…  Cerchiamo di crescerli con serenità e di preservarli da qualsiasi tipo di pressione, a cominciare da quella fisica. Sono longilinei ma esili, sono telai delicati che vanno preservati e accompagnati nella crescita. Anche sulla scorta dei guai fisici miei e di Tanya abbiamo fatto molta attenzione ad evitare qualsiasi tipo di sovraccarico. Oggi la fisiologia conferma quella che ai miei tempi era solo un’impressione, e cioè che se ben gestito da un punto di vista fisico e della prevenzione degli infortuni un atleta può essere competitivo al massimo livello fino a trent’anni e oltre. Su questa consapevolezza è improntato tutto il lavoro della mia società sportiva, dove lavoriamo per uno sviluppo graduale che consenta agli atleti di esprimersi al meglio nel momento di massimo sviluppo psicofisico facendo grandissima attenzione a non bruciare le tappe. Purtroppo vedo che ancora molti non la pensano così: siamo circondati da giovani super muscolati, fuochi di paglia che si spengono in breve tempo. La soddisfazione più grande è vederli riuscire a conciliare scuola e studio. Per noi è sempre stato un principio non derogabile: prima c’è la scuola. Vale per i nostri figli e per i nostri atleti. Prima la scuola, poi il nuoto. Si possono conciliare, ma studio e cultura sono la priorità.

L’INTERVISTA COMPLETA NEL PROSSIMO NUMERO DI AQA
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Ph. ©G.Scala/DeepBlueMedia

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