Bob Bowman: “Stavo per diventare veterinario”

Bob Bowman, allenatore e mentore di Michael Phelps, attualmente head coach presso Arizona State University, si è concesso ai microfoni di Champion’s Mojo, il podcast settimanale di Kelly Parker PalaceMaria Parker. Di seguito alcuni passaggi significativi:

Cosa scriveresti in una lettera indirizzata al Bob Bowman ventunenne, fresco di diploma a Florida State?

Gli direi di prendersi un po’ più cura di sé e di essere più paziente.Ci sono tantissime cose buone che la vita ti riserva quando impari a lasciarla scorrere. Non puoi fare accadere le cose, ma puoi farti trovare pronto quando accadono. All’inizio della mia carriera le cose non andavano benissimo, avevo anche pensato di rimettermi a studiare per diventare veterinario e specializzarmi in cavalli da corsa. Così chiamai David Marsh all’università di Auburn, dove c’era un rinomato corso di veterinaria, e gli chiesi di poter allenare i fondisti mentre studiavo. Ma pochi giorni dopo Murray Stephens di North Baltimore Aquatic Club mi propose un ingaggio da 35.000 dollari l’anno, e una settimana dopo ero lì.

Come gestisci la pressione? Come hai fatto a condurre la corsa agli otto titoli olimpici?

Avevo un vantaggio: sapevo che non si trattava di una settimana in Cina. Erano dodici anni della carriera di Michael che ci avrebbero portati a quel risultato. Avevamo lavorato passo a passo per portarlo nella condizione migliore per farcela. Sapevo che era perfettamente preparato. Non avremmo potuto fare assolutamente nulla di più. Solo gettare tutte le nostre fiches sul tavolo. Non potevamo decidere noi a quale velocità avrebbero nuotato gli avversari. Non potevamo determinare come i francesi avrebbero nuotato la staffetta. Potevamo solo fare in modo di farci trovare pronti. Eravamo lì, e prima che tutto cominciasse gli dissi sai, per vincere otto medaglie d’oro bisogna essere preparati al cento per cento, e noi lo siamo. E devi avere un po’ di fortuna, perché le staffette presentano molte incognite. Siamo stati fortunati per due volte, a essere onesti. Dopo la prima staffetta mi dissi bene, abbiamo usato tutta la nostra fortuna. Ora dobbiamo fare da soli.
Inoltre a Pechino avevo già molta esperienza, il che mi ha aiutato a gestire lo stress. Avevamo tutto sotto controllo, era tutto programmato, avevamo molte cose su cui concentrarci.  Mi prendevo dieci minuti tutte le mattine, mentre Michael faceva stretching, entravo in piano vasca e cercavo di imprimermi tutto nella memoria, e in effetti ricordo praticamente tutto di quella settimana. Questo aveva un effetto rilassante. Pensavo ehi, è fantastico. Non capita a molte persone di trovarsi in questa situazione. Noi ci siamo. Le cose vanno bene. Speriamo che oggi vadano meglio.
Poi avevo la mia routine quotidiana. C’era una palestra, ci andavo tutti i giorni alternando pesi e cardio. Lo faccio in tutti i meeting, mi evita di fermarmi a pensare troppo. E c’erano molte persone straordinarie con cui fare conoscenza. Mark Schubert per me è stato un maestro, così come i miei grandi amici Frank Busch Jack Bauerle Eddie Reese.

Come fai ad avere ancora stimoli per allenare dopo avere ottenuto con Michael il massimo immaginabile?

A me allenare piace ancora, adoro allenare. Continuerei per almeno altri dieci anni se non ci fosse la fatica dei meeting. Ma io amo passare le giornate con i ragazzi. Ad Arizona State ho un gruppo di grandi atleti e uno staff fantastico. Ogni giorno facciamo un passo avanti, e il processo è lo stesso seguito da Michael. Creare una cultura dell’eccellenza: so che sembra una frase fatta, ma è esattamente quello che cerchiamo di fare. Una cultura della responsabilizzazione, dell’onestà, della valorizzazione, della competitività, della resilienza e, soprattutto, del rispetto. In questo modo si crea un contesto nel quale il successo è inevitabile.

Ascolta il podcast [ENG]

Ph. ©Deepbluemedia

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