Break point

Doveva succedere, è successo. Sono bastate ventiquattr’ore di sospensione delle attività ed è in ginocchio un intero settore che garantisce salute, benessere e medaglie all’intero paese. Società di gestione al collasso, istruttori assistenti e allenatori a casa senza alcuna forma di supporto al reddito.

COVID-19 ha stressato fino alla rottura un sistema intrinsecamente fragile. Per capire come siamo arrivati a questo punto occorre fare qualche passo indietro.

In tutti i paesi evoluti si è compreso da tempo che la pratica sportiva è un asset fondamentale per migliorare la salute pubblica e conseguentemente ridurre l’accesso alle prestazioni sanitarie, tant’è che l’educazione motoria riveste un ruolo fondamentale all’interno della scuola. In Italia si è deciso diversamente, tenendo lo sport ben lontano dalle aule e affidandone la diffusione a un fitto tessuto di associazioni e società. Ma il legislatore ha ben chiara l’importanza dello sport di base e per favorirne la diffusione ha creato un perimetro di agevolazioni fiscali e lavoristiche, che non hanno eguali nel nostro ordinamento, per mantenere il più basso possibile il costo per l’utilizzatore finale, cioè le decine di milioni di bambini ragazzi adulti e anziani che frequentano le piscine palestre e campi sportivi italiani. Perimetro che di anno in anno tende ad ampliarsi piuttosto che il contrario.

Nel frattempo è diminuita la disponibilità degli enti locali, proprietari della quasi totalità delle piscine pubbliche, che hanno progressivamente scaricato sui concessionari gli oneri di gestione, manutenzione e ristrutturazione delle strutture continuando ad imporre tariffe ben al di sotto del prezzo di mercato grazie a un sempre più spinto ricorso alle suddette agevolazioni. E chi paga il conto delle agevolazioni? Quelle fiscali, tutti gli altri contribuenti. Quelle lavoristiche, i lavoratori stessi, che di lavoratori non si vedono riconosciuto neppure lo status. Siamo “sportivi dilettanti” che non percepiscono stipendi ma “compensi” e che in caso di infortunio o malattia possono contare solo sui risparmi o, i più previdenti, su un’assicurazione privata. “Previdenza” è una parola che neppure esiste nel nostro vocabolario.

Certo, il lavoro sportivo ha molti lati positivi: i benefici fiscali per il percipiente sono enormi, offre opportunità anche a chi non ha una formazione scolastica solidissima e si svolge in un ambiente piacevole e stimolante. E se in una piscina va male, un tecnico mediamente capace trova immediatamente altre occasioni di impiego.

Ma ora le piscine sono tutte chiuse, e non lo resteranno per poco. Non giriamoci intorno: è una tragedia. Migliaia di persone si trovano da un giorno all’altro senza risorse e senza prospettive, quella che in altri contesti si chiamerebbe “macelleria sociale”. Quando il coronavirus avrà esaurito il suo rally e si tornerà alla normalità, è evidente che qualcosa dovrà cambiare. Fermo restando l’obiettivo, mantenere ampia ed economica l’offerta di sport di base, bisognerà perseguirlo anche con altri mezzi. Quali?

Certamente gli enti locali dovranno ridimensionare le pretese nei confronti dei concessionari. Un impianto sportivo, e una piscina in particolare, è un presidio di sicurezza salute e benessere per l’intera comunità e l’amministrazione proprietaria deve tornare a prendersene cura, scegliendo il gestore sulla base delle competenze e dei progetti tecnici sportivi e non dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Le società sportive si sono dovute trasformare in stazioni appaltanti, impresari edili, analisti finanziari. È il momento che tornino a occuparsi di tecnica, didattica, selezione promozione e valorizzazione del talento, con buona pace di chi vaneggia di SSD lucrative, “capitali privati” che nessun investitore sano di mente si sognerebbe mai di riversare in un settore privo di marginalità e altre amenità simili.

I dirigenti dovranno professionalizzarsi, mettendo in cima alle loro attenzioni l’equilibrio economico finanziario, presupposto indispensabile per una gestione soddisfacente e sostenibile.

Il legislatore potrebbe defiscalizzare i consumi degli impianti sportivi e incentivare gli enti proprietari a investire in efficientamento energetico.

Infine, i tecnici dovranno iniziare ad investire con più convinzione su sé stessi. Pensare di costruirsi una vita professionale sulla base di un corso di cinquanta ore, magari lamentandosi perché una volta ogni quattro anni è richiesta mezza giornata di aggiornamento tecnico è e resterà un’ipotesi velleitaria. Anche in un quadro di maggiore stabilizzazione il lavoro sportivo manterrà sempre una quota significativa di precarietà, e per rimanere spendibili in questo mercato “formazione permanente” sono e resteranno due parole chiave.

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