L’importante è partecipare 2

ogni frase ha una storia.

Ogni frase ha una sua storia. Nasce in un contesto, in un tempo, dentro a una trama. Normalmente, le frasi che lasciano il segno, sono generate da una una crisi che riformula un pensiero latente per uno scopo immediato. Che viene mediato. E che diventa un nuovo significante.

Il motto

L'” importante è partecipare …” divenne motto olimpico alle Olimpiadi del 1932. Il mondo lesse per la prima volta quell’espressione nella sua interezza, sul tabellone elettronico del Memorial Coliseum. The Grand Old Lady, come chiamavano il loro stadio  gli abitanti di Los Angeles, introduceva così i Giochi della X Olimpiade.

Ma quella frase era stata pensata altrove e parecchi anni prima.

l’origine

Le parole che conosciamo come il simbolo dei Giochi Olimpici Moderni, erano state pronunciate da De Coubertin il 24 luglio 1908. Erano appena terminate le gare dell’edizione di Londra. Una delle meglio riuscite della storia. Un’edizione molto competitiva. Forse la più competitiva che si fosse mai tenuta. Quindi c’era tensione, e c’erano polemiche.  Come in tutte le gare. Soprattutto in quelle dove c’è incertezza.

banchetto d’onore

Nella galleria d’arte che aveva esposto per la prima volta gli impressionisti a Londra, la Grafton Gallerie, si teneva il banchetto in onore dei partecipanti. L’aveva organizzato la Municipalità come segno di riconoscimento e come atto di cortesia per gli ospiti. Il barone, naturalmente, doveva tenere il discorso di saluto. Il clima non era per niente “olimpico”. Soprattutto tra britannici e statunitensi c’era acredine. Roba di medaglie, presunte ingiustizie, questioni di regole. Campanilismo. Controversie irrisolte e irrisolvibili. Accuse velate sul tema scabroso del professionismo.  Insomma, era il momento di dire qualcosa di importante che quietasse gli animi e lasciasse un segno diverso a quella competizione, che non fosse il rancore.

il discorso del barone

Fu così che nacque tutto. Tra l’altro, pronunciando quelle parole, de Coubertin cercò di mantenere un profilo basso, attribuendo le sue idee al reverendo Ethelbert Talbot, il vescovo americano della chiesa episcopale, che aveva officiato il servizio religioso per atleti e funzionari tenuto nella cattedrale di S. Paul la settimana prima. Ethelbert Talbot però, non aveva detto le stesse cose. Aveva detto delle cose belle, in cui centrava  la questione della riuscita, ma non aveva detto proprio quelle cose.

il sermone di Talbot

“Abbiamo appena finito di contemplare i grandi Giochi Olimpici. Cosa vuol dire? Vuol dire che giovani floridi e pieni di salute sono venuti da tutte le parti del mondo. Qualcuno dice che questo  internazionalismo che si è visto allo stadio, porta con sé un pericolo. E’ vero. Come si dice, ogni atleta si sforza non solo per il bene dello sport, ma per il bene del suo paese. E così s’inventa un nuovo modo di essere rivali. E se l’Inghilterra venisse battuta sul fiume? Se l’America fosse distanziata nelle piste d’atletica? Se quell’americano avesse perso la forza che aveva prima?. E Beh? Allora? L’unica certezza dopo tutto ci viene dalla lezione di Olimpia. I Giochi stessi sono meglio della gara e sono il premio. San Paolo ci dice quanto sia insignificante il premio, il nostro premio che non è corruttibile, ma incorruttibile, e sebbene solo uno possa indossare la corona di alloro, tutti possono condividere la stessa gioia della gara. Pertanto, ogni incoraggiamento deve essere dato all’interesse gioioso, potrei anche dire salva-anima, che deriva dagli sport atletici partecipati, equi e puliti ”.

S. Paolo 1Cor 9/ 24-30

S. Paolo non aveva detto che il premio era insignificante. Aveva detto che “nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio”. Poi aveva detto “Correte anche voi in modo da conquistarlo!”.  A San Paolo piacevano le competizioni, le citava spesso. Più volte aveva ammirato gli atleti nel loro volere intenso. Voleva che i cristiani fossero così nel cercare la loro meta. Solo che il  loro premio doveva essere un altro. “ Ogni atleta è temperante in tutto; lo è per ottenere una corona corruttibile”. Ricordava ai suoi amici di Corinto. Gli sembrava impossibile che per un premio così grande i cristiani non fossero capaci di lottare come i pugili, o i corridori, che lo facevano per ottenerne uno che sarebbe sfiorito in poco tempo. 

La lezione di Olympia

Tra l’altro non c’era nessuna lezione di Olympia da imparare. A Olympia contava solo il primo e per vincere valeva tutto. Chi non vinceva aveva fallito. La nuova questione veniva dal moderno. Era una sintesi di antico e nuovo che aveva fatto la nuova Olympia di De Coubertin, non la vecchia.

De Coubertin

Anche De Coubertin, come San Paolo,  vedeva il valore della lotta. Nelle sue parole c’era però un accento diverso. Più di S. Paolo, le sue parole riecheggiavano gli echi di quelle di Ovidio delle Metamorfosi. In quelle lotte allo sfinimento che aveva visto materializzarsi davanti a lui in quei Giochi di Londra, che avevano rivelato così tanto del suo sogno, aveva visto la grandezza di chi sa sfidare il destino comunque, anche quando sa di non avere opzioni. «Non è stato tanto disonorevole essere sconfitto quanto è onorevole essersi battuto» aveva sentenziato il poeta di SulmonaE lui se l’era ricordato. (Metamorfosi, lotta fra il dio fiume Acheloo ed Eracle)

Nelle foto S. Paolo, il reverendo Talbot e Pierre de Coubertin.

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