Antonio La Torre. Sport e salute: è fondamentale cominciare dai giovani.

In questi giorni ho avuto il piacere di partecipare ad un interessante Webinar proposto dalla Scuola dello Sport del CONI dal titolo “Attività motorie per uno sviluppo equilibrato dei giovani – riflessioni e proposte per ripartire”. Ho chiesto alcune considerazioni sull’argomento al Prof. Antonio La Torre, Professore Associato dell’Università degli Studi di Milano, Direttore Tecnico Squadre Nazionali Atletica Leggera e collaboratore della Federazione Italiana Nuoto per la formazione dei tecnici, che ha presentato e moderato il seminario.

Nella sua presentazione ha sottolineato come sia importante NON distinguere gli atleti d’élite dalla popolazione giovane che pratica lo sport. Da cosa e da chi nasce, secondo lei, questa distinzione? E perché influenza in modo negativo la pratica sportiva?

Vorrei partire dall’opportunità che paradossalmente questa pandemia ci ha offerto: credo sia arrivato il momento di smettere di tenere separate queste due realtà come se fossero due mondi lontani, da una parte il mondo dell’alta performance, che richiede applicazione, sacrificio, perseveranza, talento, attenzione massima nelle metodologie dell’allenamento, ottimo rapporto tra allenatore e atleta, tra tutto lo staff, tutto ciò che insomma ruota intorno alla performance di alto livello, e dall’altra il mondo della massa, di coloro che fanno il tifo solo guardando; una visione, a mio parere ormai superata. Abbiamo dei dati che confermano il fatto che c’è molta gente che si muove, e lo fa anche ispirandosi alle imprese dei grandi atleti. La popolarità di Federica Pellegrini, per citare un esempio, o di Gianmarco (Gimbo) Tamberi, oppure di Filippo Tortu per citarne altri ancora, è quella di ispirare i sogni delle persone normali. Ritengo sia necessario un salto culturale: quelle che potremmo definire punte di diamante di un esercito di persone che si muove, acquistano maggior valore se l’esercito delle persone che si muove diventa sempre più grande. Perché vuol dire che l’attività fisica, motoria e sportiva assume un valore molto importante nella vita delle persone e non è più vista come un semplice momento ricreativo o di svago. Il messaggio che i grandi atleti mandano è proprio quello di muoversi, muoversi allo scopo di stare bene. Questo messaggio deve essere visto, a mio parere, come un ponte che noi dobbiamo consolidare, per far sì che queste due realtà non siano più due sponde separate di un fiume senza nessun collegamento. Un approccio culturale di questo tipo ha delle ricadute positive in moltissimi ambiti: fa bene allo sport di alto livello, allo sport di base e alle famiglie che sentono propri questi valori e sapranno avviare in maniera corretta i propri figli all’attività sportiva.

Non pensa che a volte siano gli stessi operatori sportivi che praticano questa divisione?

Credo che l’impegno ci debba essere sempre e comunque. Insegno ai miei studenti l’importanza del movimento giovanile nello sport: spesso invoco l’intervento dei tecnici migliori nelle categorie giovanili, perché ritengo che sia lì che ci si gioca il potenziale di futuri atleti olimpici. Insegno inoltre che la salute delle persone è un bene primario. Non posso pretendere ovviamente che ciò che viene svolto dagli allenatori che seguono l’alto livello sia uguale a ciò che fa un allenatore che segue le categorie giovanili, ma l’impegno e la serietà deve essere il medesimo, comprendendo il contesto in cui ciascuno opera. Aggiungo inoltre che è importante riconoscere che non tutti sono nati per fare gli allenatori d’élite, in questo ruolo sono richieste delle skills che non tutti hanno, si tratta di spalmare pane e stress tutti i giorni, l’impegno è H24. Allo stesso modo non tutti sono portati a seguire le categorie giovanili: c’è chi è portato ad allenare giovani e ad approcciarli meglio alla pratica sportiva, perché l’indole è prevalentemente educativa. L’errore nasce da una visione distorta che forse lo stesso mondo dello sport ha trasmesso: se non vinci non sei nessuno e se i tuoi atleti non vincono non sei nessuno. È sbagliato! Io continuo a ripetere che prima di tutto bisogna formare l’atleta. Un allenatore giovane che ha il coraggio di consegnare un atleta bravo ad un altro allenatore con maggiore esperienza e maggiori competenze, è un allenatore che sa fare il suo lavoro perfettamente e merita il massimo rispetto, lo stesso rispetto che si da a un allenatore che per esperienza, capacità e altre qualità si trova ad allenare ai massimi livelli. Un altro errore culturale che si fa con i giovani è riferito all’ enjoyment: si pensa che se si pratica lo sport con divertimento si sta facendo una cosa banale. È un errore tragico, che poi ce lo ritroviamo a scuola, che porta a pensare allo sport come a un intervallo nella vita. Lo sport è una cosa molto seria nella vita delle persone: insegna molto senza fare troppo rumore, attraverso la pratica. Insegna il rispetto delle regole, degli orari, il doversi organizzare, lo stare in gruppo. Tutti questi valori trasversali spesso vengono dimenticati perché anche nelle categorie giovanili teniamo davanti sempre il cronometro. Il cronometro arriva, è giusto che ci sia, si allena per far vincere le persone, ma se non si è precedentemente lavorato sul farli appassionare siamo davanti ad un fallimento. Atleti appassionati, anche se non incredibilmente vincenti, saranno comunque adulti che continueranno a praticare sport e lo difenderanno sempre.

Il professor Nicola Lovecchio, che insegna all’Università degli Studi Bergamo ed era uno dei relatori, ha chiarito in maniera inequivocabile il significato di termini che spesso vengono utilizzati in maniera impropria: attività fisica, esercizio fisico e forma fisica. Ritiene che ci sia poca chiarezza, o scarsa conoscenza da parte di chi pratica sport e da chi opera in ambito sportivo? Oggi, purtroppo o per fortuna, con un click si cercano e si ottengono un sacco di informazioni, ma le fonti non sempre sono autorevoli o attendibili, e il rischio di incappare in articoli contenenti concetti inesatti o imprecisi è abbastanza elevato.

Ritengo che la disquisizione del professor Lovecchio durante il seminario non fosse glottologica, bensì di sostanza. Purtroppo, in Italia abbiamo la cattiva abitudine di tradurre un po’ troppo “comodamente” la terminologia anglosassone. Tutto ciò perchè era fondamentale far capire che non basta fare pochi movimenti per fare movimento. Nell’intervento successivo, tenuto dal professor Codella, si è rafforzato il concetto parlando del tema dell’adattamento, spiegando che c’è una reversibilità di ciò che facciamo entro le 72 ore e quindi nasce il bisogno di dare continuità alle nostre azioni. Vorrei precisare che il mio scopo è sempre quello di mettere insieme persone che hanno grande competenza pratica però basata sull’evidenza scientifica. Se poi analizziamo quanto accaduto durante il lockdown, in chiusura ho detto che non dobbiamo perdere l’occasione di far muovere quelle persone che durante lo stop forzato hanno scoperto l’esercizio fisico. Se le persone poco attive, grazie al Covid hanno scoperto che muoversi è meglio, dobbiamo anche metterli in guardia e indicare loro di stare alla larga dai millantatori. L’esercizio fisico è una cosa molto seria e non è vero che fa bene comunque. Il professor Codella ha richiamato l’esempio del farmaco: se i farmaci si prendono in maniera sbagliata e a casaccio fanno molti danni; l’esercizio fisico fatto male, fa male. Per essere fatto bene deve essere proposto da persone competenti, preparate, da laureati in scienze motorie. Dobbiamo andare sempre di più verso la qualificazione degli interventi degli operatori sportivi e diffidare delle troppe news. C’è un’ipertrofia di informazioni, di app, di tutorial. Bisogna guardarle sempre con occhio critico. È indispensabile cercare sempre nell’interlocutore sportivo che si ha di fronte un retroterra culturale solido e possibilmente scientifico. Così si fa un passo in avanti. Se a causa dell’incompetenza si propongono subito ad una persona, magari in sovrappeso, delle esercitazioni che non è in grado di fare, si sbaglia due volte: la si mette in difficoltà psicologica, e si fanno danni fisici. C’è quindi un problema di metodo e un problema di contenuto: ecco perché è fondamentale avere persone competenti, formate bene, laureate che facciano proposte pratiche. Ormai si parla di  evidence based practice, ossia la pratica basata sull’evidenza scientifica.

Il professor Lovecchio nel suo intervento ha parlato della grande importanza che riveste la motivazione intrinseca nella pratica sportiva. Nello specifico ha spiegato come la competenza, cioè il saper fare, la consapevolezza della propria competenza e il divertimento, siano gli ingredienti fondamentali per essere motivati a praticare sport. In che misura, secondo lei, l’operatore sportivo, che per praticità definiamo allenatore o istruttore, incide su questi fattori? E, considerando la sua grande esperienza di allenatore, quali sono gli errori più frequenti che un tecnico fa su questo aspetto?

Sono convinto che non ci siano tecnici che fanno errori appositamente: molti errori sono sicuramente fatti in buona fede, ma non per questo devono essere assolti in eterno. Il processo di revisione delle proprie pratiche di intervento, il bilancio degli effetti del proprio operato, dobbiamo tutti avere l’onestà di farlo. I tre pilastri della questione, che sembrano apparentemente distanti tra di loro, ossia competenza, consapevolezza ed enjoyment, sono più vicini che mai tra di loro. Poniamoci tutti insieme una domanda: ma chi glielo fa fare a Federica Pellegrini di inseguire la quinta Olimpiade rinviata addirittura di un anno? Chi glielo fa fare di alzarsi tutte le mattine e andare in piscina a macinare chilometri su chilometri di allenamento? È un’atleta che non deve dimostrare niente a nessuno, ha fatto la storia del nuoto e potrebbe dedicarsi tranquillamente ad altro. Se Federica non si divertisse a fare ciò che fa non c’è nessuna motivazione che ti fa tornare in acqua, ad allenarti con il caldo e con il freddo, a fare i collegiali, a stare lontano da casa. I campioni sono tali e sono longevi sportivamente parlando, perché hanno saputo comunque continuare a divertirsi pur facendo un lavoro sistematico, che a volte può apparire persino noioso, un lavoro duro e faticoso. Molti maratoneti fanno 30-40 km al giorno: è fatica, tantissima. Non esiste nessun atleta che sia durato nel tempo che non abbia continuato a divertirsi. Chiedetelo a Francesco Totti, a Paolo Maldini, che probabilmente darebbe qualsiasi cosa per avere due ginocchia nuove per poter giocare ancora. Perché in fondo anche il grande campione ha saputo conservare quello spirito di bambino che si diverte e che è l’approccio fondamentale allo sport. È ciò che ti fa capire qual è la differenza tra il grande campione, il campionissimo e la massa. Aggiungo un altro quesito: cos’è che ha rafforzato Federica Pellegrini nel tempo, rispetto alla bambina che andava in acqua ad allenarsi e a gareggiare? La propria competenza, la consapevolezza dei propri mezzi. Su questo gli allenatori, gli istruttori hanno un grande ruolo. Ma anche per sé stessi. Anche loro lavorano per migliorare la propria competenza, la consapevolezza di ciò che fanno. Ma anche loro sono esseri umani e se non si divertono ad allenare, dopo un po’ annoiano anche i loro atleti. Tutti i grandi allenatori che ho conosciuto, si divertono a fare il mestiere che fanno. Ho allenato per quarant’anni sul campo e se non mi fossi divertito ma non sarei resistito per così tanto tempo. Ora alleno gli allenatori, e mi diverto a fare questo. Anche se costa fatica e sacrificio, si dorme poco e si viaggia tanto. Se non mi divertissi non potrei sostenerlo. Fanno carriera quei tecnici che sanno tenere sempre insieme queste tre cose. Continuare ad essere creativi nell’allenamento è una sfida con sé stessi per continuare a divertirsi.

Nella specificità dell’ambito giovanile, spesso ci si scontra con una moltitudine di famiglie che antepongono l’impegno scolastico alla pratica sportiva. È ampiamente dimostrato però che un adeguato sviluppo motorio favorisce un migliore sviluppo cognitivo, soprattutto se ci riferiamo a bambini e ragazzi frequentanti la scuola primaria e secondaria. Da cosa può dipendere, secondo lei, questa resistenza e in che modo il mondo dello sport può intervenire a sostegno di questa tesi?

Ho insegnato educazione fisica per tanti anni in un liceo, dove c’erano degli insegnanti di altissimo livello nelle altre materie. Ed è proprio lì che si combatte la battaglia: molti di questi colleghi probabilmente e purtroppo, hanno avuto qualche insegnante di educazione fisica modello “Rambo” che ha evidenziato loro i limiti anziché le potenzialità. Quando dicevo in precedenza che dobbiamo rimettere insieme il mondo dello sportivo amatoriale con quello dell’alto livello, non parlavo solo di aspetti salutistici e di prevenzione, mi riferivo anche ad aspetti culturali. Sono in molti oggi che vorrebbero fare una maratona, anche magari qualcuno di quegli insegnanti che hanno odiato l’educazione fisica perché qualcuno gliela ha fatta odiare, e ci provano, e scoprono qualcosa di molto interessante: che si devono applicare, che si devono impegnare, che si devono allenare. Esattamente ciò che richiedono ai loro studenti. Un grande errore che si è fatto e ancora si fa nel mondo della scuola è quello di far apparire questi studenti come due entità separate: da una parte il corpo e dall’altra la testa. È un errore legato anche a visioni culturali, che non è dipeso dagli insegnanti di educazione fisica. Negli approcci psico-pedagogici avanzati abbiamo visto che non è assolutamente possibile separare il corpo dalla mente e il paradosso è che ci sono tonnellate di letteratura scientifica che testimoniano che il rendimento neuro cognitivo è favorito dal movimento. La resistenza delle famiglie è una resistenza antica, legata alla cultura e in modo particolare in Italia. Ma anziché continuare a mantenere gli steccati, perché non rompiamo i muri? Dimostriamo concretamente che è vero che chi è bravo sul piano fisico-motorio da bambino poi diventa anche più bravo nello studio quando è un po’ più grande. Ripeto, non lo dico io, lo dice la letteratura sia di ambito scientifico che di ambito psico-pedagogico. Ai colleghi istruttori, allenatori, insegnanti suggerisco: non esasperiamo il solo aspetto prestativo, abbiamo il dovere di aiutare chiunque a migliorarsi. Dobbiamo avere una visione assolutamente inclusiva: ciascuno faccia per quello che può. Dobbiamo tirare fuori da ogni allievo il meglio e il massimo che lui può dare. E qui torniamo al valore educativo dello sport nella fase giovanile: educare deriva da educěre, cioè trarre fuori.

La Federazione Italiana Nuoto negli ultimi anni ha investito in maniera importante sulla formazione dei propri tecnici. Probabilmente i grandi risultati ottenuti nel mondo del nuoto a livello internazionale sono dipesi in parte anche dal fatto di avere personale altamente qualificato. Ma se spostiamo l’attenzione dall’attività d’élite a quella di base, le considerazioni sono diverse, non sempre c’è la stessa attenzione e lo stesso investimento sulla propria formazione: ottenuto il brevetto, il percorso si ferma. E questa considerazione si può fare anche per molti altri sport. Perché secondo lei?

Perché prima di tutto dovremmo ricordarci che bisogna aggiornarsi tutta la vita, e concordo sul fatto che il problema riguarda molte discipline sportive. Ritengo che il mondo del nuoto abbia un’impostazione ottima, molto seria e professionale. Il problema della formazione dei tecnici di base è un problema di tutte le federazioni, di tutto lo sport italiano. La Scuola dello Sport, in questo senso, con Rosanna Ciuffetti in prima linea, sta facendo continui tentativi per ribaltare questa situazione. Credo anche che dovremmo tener conto che la realtà, piaccia o non piaccia, è proprio quanto indicato nel seminario di ieri: sport e salute. O noi ci ricordiamo del valore culturale dello sport e di come questo incide nella vita delle persone, o se ci fermiamo esclusivamente al mero riscontro cronometrico e quindi prestativo, ci troviamo di fronte ad una selezione darwiniana anche degli istruttori e degli allenatori. Il tema è semplicemente invitare tutto lo sport italiano a ridedicare attenzione alla formazione di coloro che incontrano per primi i giovanissimi perchè è lì che ci si gioca tanto, se non addirittura tutto. Il fenomeno del drop out, dell’abbandono, nasce perché a furia di sportivizzare precocemente i ragazzi si ottiene il solo risultato di annoiarli. Per una ristrettissima minoranza lo sport diventerà un lavoro. Potrebbe essere invece che per la grandissima maggioranza, se sappiamo proporglielo bene, rimanga un qualcosa che li accompagnerà per tutta la vita. E lì abbiamo finalmente vinto! Lì non ci sarà più nessuno che metterà in discussione il valore culturale dello sport. Ma se anche noi, nel nostro linguaggio, lo riduciamo solo a un problema di prestazione, non riusciremo neanche a raccontare il fascino che c’è dietro un’impresa sportiva. Lo sport piace alle persone perché fa sognare, però bisogna saperlo raccontare, narrare e non ridurre tutto a dei numeri. Io sono Direttore Tecnico della Squadra Nazionale di Atletica Leggera, devo confrontarmi con i numeri, i miei atleti devono andare forte. Ma se guardo il movimento sportivo alla base, vorrei vedere molti ragazzi competenti, che lavorano con passione, e che riescono a trasmettere questa passione a chi hanno davanti, sia che si tratti di un bambino o di un anziano, dall’adulto o al ragazzino. Solo in questo modo il movimento sportivo può crescere.

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