“Tutti gli sport per tutta la gente”

De Coubertin non era un fanatico. E non lo era in molti aspetti. Fu il primo a pensare che in ogni sport ci fosse un uguale valore. Al suo tempo non andava così. Uno schermitore si sentiva uno schermitore e non uno sportivo. Si riteneva assolutamente superiore ad un podista, il quale, a sua volta, non aveva il benché minimo problema a sentirsi più importante di un calciatore. Nessuno aveva niente a che spartire con gli altri. Praticamente ogni sport era una specie di razza a parte.

Fu il barone ad inventare la questione che gli sportivi fossero un popolo e che ad unirli erano la pratica e l’idea di fare. Solo l’Olimpiade rese questa idea una realtà. In un secondo tempo lo fecero anche le diverse organizzazioni.

per tutti

Un’altra questione di De Coubertin era che lo sport dovesse assolutamente essere per tutti.  “In nessun modo lo sport può essere considerato un oggetto di lusso”. Erano le sue parole. Quanto suona utopistica  oggi quest’affermazione, più di quanto non lo fosse ieri? (E non mi riferisco solo al fatto che si pensi a chiudere facilmente le palestre e le piscine di fronte al rischio, come se fare sport fosse un  passatempo qualsiasi, sostituibile facilmente con un altro passatempo qualsiasi).

Oggi per far fare sport ai figli in una casa occorrono almeno due stipendi o l’aiuto dei nonni. Non solo un disoccupato, o un padre di famiglia con reddito di cittadinanza, ma anche un operaio o un lavoratore con contratto a termine,  i sottoscrittori di contratti sportivi (paradosso), i lavoratori di cooperative sociali, un insegnante monoreddito non sono in grado di pagare una quota periodica, la visita medica sportiva, le attrezzature che normalmente si richiedono in qualunque attività, le iscrizioni o le trasferte che ormai nella maggioranza dei casi ricadono necessariamente sulle famiglie.

Lo sport dell’antichità teneva lontani dalle sue arene gli schiavi. Bisogna fare in modo che quello dei tempi moderni non segua la stessa regola nei confronti dei meno abbienti”. Questo lo diceva De Coubertin, e forse non immaginava in quale forma gli schiavitù saremmo tornati.

Tutti gli sport per tutti

Ma De Coubertin era molto più avanti. Avrebbe voluto l’accesso a qualsiasi sport per qualsiasi persona. Davvero un’utopia. Come se equitazione, golf, tiro con la carabina, motonautica o polo… fossero davvero a disposizione di un popolo.

Non solo una questione di costi

Ma non è mai solo una questione di costi. Per fare uno sport ci vuole anche dell’altro. Ci vuole una visione generale che veda nello sport la possibilità di incidere nella vita e la consapevolezza diffusa dello star bene che ne deriva nel senso della realizzazione e non del palliativo.

E poi ci vuole una cultura propria di ogni singolo sport: una tradizione che lo faccia appetibile, una vicinanza che lo manifesti come praticabile, una preparazione che renda intellegibile la bellezza insita in ogni specialità. (Chi non ha fatto davvero pallanuoto non ha idea di cosa ci sia di magico in quel gioco e chi non ha nuotato pensa impossibile il fatto di stare a lungo in una corsia).

Una questione personale

De Coubertin diceva anche che: “Un paese può dirsi davvero sportivo quando la maggioranza dei suoi abitanti sente lo sport come una necessità personale”.

Anche in questo non possiamo che essere d’accordo. Lo sport è lo sport solo se diventa una questione personale. La nostra nevrosi generalizzata da cittadini alienati ci farebbe dire che è “la nostra malattia”: una dipendenza”. Ma negli sprazzi di sanità psichica che non ci sono ancora del tutto negati possiamo affermare senza troppi timori quanto sia un’opportunità, una bella offerta, una compagnia buona per affrontare con gli altri il corso della vita.

Possibile che stiamo sempre così indietro rispetto alle parole e alle visioni di un vecchio e ormai passato uomo dell’ottocento?

 

 

 

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