La mano invisibile

Dopo aver creato ministeri e sottosegretariati a iosa per tenere in equilibrio le forze politiche che reggono il suo governo, ha optato per un supplemento di riflessione sullo sport. Nel frattempo ha portato a sostanziale compimento la riforma Spadafora nella quasi totale contrarietà degli stakeholder. È evidente che Mario Draghi ha un piano, ma quale? Nel sostanziale mutismo che ha caratterizzato sinora l’azione del capo del governo può essere utile fare riferimento alla sua storia politica e professionale e alle dichiarazioni rilasciate prima di assumere l’incarico.

Governatore della Banca d’Italia, Presidente della Banca centrale europea, salvatore dell’euro. Se è vero che nel 2015 si è autodefinito “socialista liberale”, termine che dovrebbe conciliare economia di mercato e attenzione all’equità sociale, è altrettanto vero che alla guida della Direzione generale del Ministero del tesoro, carica assunta nel 1991, è stato protagonista di un periodo della storia nazionale caratterizzato dalla liberalizzazione dei mercati finanziari e dalla privatizzazione di circa il 15 per cento della nostra economia, oltre che dalle manovre di rigore e di riduzione del debito pubblico che consentirono l’ingresso dell’Italia nell’euro.

Nelle sue due uscite pubbliche del 2020, un editoriale scritto per il Financial Times e il discorso tenuto al meeting di Comunione e liberazione di Rimini, ha lasciato trapelare la propria contrarietà a misure di sostegno dell’economia a fondo perduto, che creano debito che si scarica sulla future generazioni. Contrarietà confermata dai partecipanti ai colloqui preliminari alla formazione del governo, ai quali avrebbe ribadito la necessità di favorire gli investimenti evitando contributi a pioggia, finanziando le imprese in grado di riprendere e consolidare il proprio posto nel mercato.

Ecco: la mia impressione è che il Presidente del consiglio guardi con un certo fastidio al mondo dello sport dilettantistico in generale e a quello dei gestori in particolare, percepiti come una categoria pre-professionale, incapace di darsi una struttura aziendale e pertanto non meritevole di sostegno, ma anzi da lasciar stritolare ai meccanismi del mercato a favore di una nuova generazione di imprenditori del settore, portatori di competenze e capitali. In una parola alle grandi catene europee del fitness, che sin qui hanno faticato a imporsi proprio per la presenza di un irriducibile tessuto di associazioni e società sportive dilettantistiche.

Una visione in cui il CONI e le Federazioni tornerebbero a occuparsi esclusivamente di alta prestazione e gli Enti di promozione dello sport di base negli impianti comunali non privatizzabili, per ridotto bacino di utenza o per antieconomicità intrinseca. Insomma la classica privatizzazione all’italiana, con gli imprenditori che mettono le mani sui rami d’azienda più redditizi e lasciano al pubblico gli oneri di gestire i servizi meno remunerativi, che però sono quelli a maggiore rilevanza sociale.

È un modello di sviluppo che recide il legame fra sport amatoriale e agonistico, essendo quest’ultimo un costo superfluo in ottica aziendale, e sgretola la base sulla quale si sono costruiti gli straordinari successi del nuoto azzurro negli ultimi trent’anni. Un modello nel quale, analogamente a quanto avviene nei paesi anglosassoni, lo sport agonistico sopravvive solo se riesce a generare adeguati ricavi commerciali come il calcio, gli sport motoristici o il da Draghi amatissimo golf.

Queste sono considerazioni di fantapolitica basate su nulla più che sensazioni personali, e certamente saranno smentite dalle prossime deliberazioni del Presidente del consiglio. Non dubito infatti che il capo del governo sia consapevole che il nuoto italiano è un’eccellenza che va salvaguardata, whatever it takes.

Ph. ©A.Naumann @Pixabay

13° Meeting Squalo Blu

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