“Quanto dovrei fare?”

Come allenatore ho sentito questa domanda moltissime volte. In apparenza è una frase ingenua. In  sostanza è una rivelazione di questioni intricate e complesse. Sicuramente la domanda omette molte cose. Per esempio alcune volte vuol dire: “Quanto dovrei fare perché tu sia contento?”. Altre volte invece: “Quanto dovrei fare per essere bravo?”, oppure : “Quanto dovrei fare per essere bravo da essere considerato anche dagli altri, non solo da te? oppure anche: Quanto dovrei fare per non essere deluso da quello che ho fatto?”. 

dovere

La prima questione sta proprio nella comparsa del termine dovere. C’è un dovere nel fare bene una gara? Chi lo ha posto? Perché nell’agire umano di un’attività libera come lo sport, deve esserci di mezzo il dovere?

I doveri sono obblighi verso un’autorità che si mette sopra (e che ci tiene sotto): verso la famiglia, lo stato, le istituzioni (sempre che ci siano, e siano riconosciute come tali). Ma in una gara?

Qual è l’autorità a cui si deve una prestazione? Sono io allenatore? E allora qual è il tipo di legame che ha l’atleta con me? é la società? Per quale vincolo? E’ la federazione? la famiglia? Con quali diritti queste autorità pongono questo dovere?

obbligo di prestazione

Tra l’altro nell’idea di dovere c’è la morte della prestazione. Per spiegarlo mi basta pensare all’incommensurabile  tristezza che suscita la formula “i doveri coniugali”. Roba che a pensarla così si è immediatamente presi dall’inarrestabile tentazione di consegnarsi ai monaci trappisti.

Non ci può essere dovere nel far bene. Il bene sta tutto nella questione altrettanto spigolosa e sdrucciolevole del piacere (anche quando diciamo diversamente, perché normalmente mentiamo, nascondiamo, oppure non usiamo le parole giuste per raccontarci).

imperativo categorico

Non dobbiamo però essere ingenui. La domanda esprime una realtà che è presente e che preme. Effettivamente il mondo completamente organizzato del nostro tempo è un mondo che ha dimenticato la questione del gusto e del piacere, per propinarci solo doveri. Tra l’altro anche il dovere di godere dei beni che produce e delle libertà che ci concede. Si tratta di un imperativo categorico: produrre ed essere utile. Un obbligo feroce a cui tutti siamo soggetti.

bisogni

Con il massimo dello sforzo il mondo organizzato occidentale è riuscito a malapena a farci considerare le questioni personali come bisogni. Ma non è la stessa cosa. Il bisogno è una povertà, manca qualcosa, il piacere una ricchezza, c’è un di più.

risposte

La domanda però è rivolta a noi. Siamo noi che dobbiamo rispondere, perché forse anche noi propiniamo la prestazione come un dovere morale e quindi siamo anche noi nel campo dei sanzionatori.

che fare?

Da tempo rispondo con sicurezza a questa domanda che non c’è nessun dovere. Dirlo mi serve a provocare un ripensamento rispetto a quello che entrambi stiamo vivendo. Poi chiedo di riformulare la frase in “Cosa posso fare?. La risposta però deve essere esplicitata in termini di preparazione e di lavoro. Quanto sei in grado di passare? Quanto puoi tornare? Su che base lo dici? la  risposta deve essere motivata dall’esperienza e definita in numeri.

previsione

Infatti non si può passare con un tempo che non si è mai fatto, né tornare più veloci delle andature costruite. Quello che non si può fare è roba inutile e pertanto è dannoso. E’ stupido stare a pensarci. Quello che si può fare invece è il buono. Se nuoto così, viro così, arrivo così, il tempo che viene fuori non può essere meno di questo. Questa è la perfezione. E la perfezione non è la norma. é l’eccezione. Quindi è il massimo. Può essere, so farlo, ma è come un regalo.

Il bello è che dentro questa logica le cose funzionano più facilmente e , certe volte, si riesce anche ad uscirne veramente contenti.

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