La definizione di “sesso femminile” nello sport d’élite

Tutte le competizioni delle discipline sportive basate esclusivamente sulle capacità condizionali sono tradizionalmente divise inMa  “maschili” e “femminili”. Tuttavia la distinzione non è sempre così evidente, e il tema è tornato di attualità con la richiesta di un numero sempre maggiore di donne transgender di potersi cimentare nello sport agonistico. Sul tema segnaliamo un lungo e approfondito articolo di Nature, che riportiamo nei passaggi salienti.

Le prime norme per la verifica del sesso biologico di appartenenza risalgono agli anni Sessanta, in coincidenza con la trasformazione dello sport femminile in fenomeno di massa e il miglioramento impetuoso delle performance delle atlete, che indussero a prevedere degli esami visivi e clinici da parte dei medici sportivi.

Nel 1968 il Comitato olimpico internazionale (CIO) adottò una diversa modalità di verifica, basata su un test cromosomico. Gli esseri umani hanno generalmente 23 coppie di cromosomi, per un totale di 46. Una di queste coppie determina il sesso biologico: le femmine hanno  normalmente due cromosomi X, i maschi un X e un Y. Esistono naturalmente numerose varianti a questa regola, determinate da errori di trascrizione, mutazioni, interazioni fra DNA e ormoni. Può tuttavia capitare che ci sia discrepanza fra il corredo genetico e l’anatomia di un individuo: questa condizione viene definita “intersessualità” o “divergenza nello sviluppo sessuale” (DSDs).

Inoltre, come da subito evidenziato dai genetisti, questo tipo di test sono discriminatori e inadatti a identificare un “ingiusto” vantaggio nello sport femminile: non identifica ad esempio quello 0,2% di uomini con corredo genetico XXY o donne con alterazioni ormonali come l’iperplasia surrenale che comportano un aumento della massa muscolare.

Col passare dei decenni le istituzioni sportive hanno cercato di “proteggere” lo sport femminile garantendo la partecipazione ai soli soggetti “biologicamente donne”: una definizione basata principalmente sui livelli di testosterone. Ma alcuni ricercatori dubitano anche della validità di questo criterio. In generale, la prassi di suddividere atleti e atlete per il loro sesso biologico solleva numerose questioni sull’etica della medicina e sui diritti umani che sono ben lungi dal trovare una risposta.

Le DSDs sono rare, ma sono rilevate 140 volte più frequentemente fra le atlete che nel resto della popolazione. Individui con queste condizioni genetiche producono livelli elevati di testosterone, una condizione nota come iperandroginismo che può essere indotta anche da altre patologie, come la sindrome dell’ovaio policistico e la già citata iperplasia surrenale. Il testosterone favorisce la produzione di massa muscolare, rinforza le ossa e aumenta i livelli di emoglobina nel sangue. Nella sua forma sintetica è una sostanza dopante.

I livelli di testosterone nelle donne adulte sono generalmente compresi fra 0,12 e 1,79 nanomoli per litro, mentre negli uomini fra 7,7 e 29,4. Questa differenza si manifesta dopo la pubertà ed è la principale spiegazione delle differenze di performance fra maschi e femmine.

Il primo organismo sportivo internazionale a limitare la partecipazione alle gare di donne con iperandroginismo è stata la Federazione internazionale di atletica leggera (World Athletics – WA), dando luogo alla famigerata controversia che ha coinvolto la mezzofondista sudafricana Caster Semenya, che nel 2009 fu costretta a uno stop di 11 mesi. Le regole della IAAF prevedevano che, per competere nelle gare femminili, era necessario un trattamento ormonale o chirurgico per contenere i livelli di testosterone sotto le 10 nanomoli per litro. Questa norma fu cancellata su ricorso della sprinter indiana Dutee Chand dalla Corte per l’arbitrato sportivo, che diede alla WA due anni per dimostrare con evidenze scientifiche che livelli naturalmente alti di testosterone fornissero un vantaggio indebito.

Una delle principali obiezioni al criterio del testosterone è che i livelli dell’ormone posseduti da maschi e femmine non sono così nettamente distinguibili: una ricerca condotta nel 2014 su 693 atleti d’élite di 15 discipline sportive ha evidenziato che il 14% delle atlete aveva livelli superiori alla media -in alcuni casi anche a quella maschile, mentre il 17% degli atleti era al di sotto.

Inoltre non è ancora chiaro come effettivamente il testosterone influisca sulle prestazioni dei maschi, che mediamente corrono e nuotano il 10-12% più velocemente delle femmine e saltano il 20% più in alto o lontano. Questa incertezza fu l’elemento centrale della sentenza della CAS.

Uno studio del 2018 che dimostrava un miglioramento del 3% nelle prestazioni delle atlete con livelli di testosterone sopra la media è invece alla base del nuovo regolamento della WA, che impone alle donne di mantenere valori inferiori alle cinque nanomoli per litro nei sei mesi precedenti una competizione. Tale studio è stato però fortemente contestato al punto da chiederne il ritiro, e il regolamento che su di esso si basa è stato da più parti bollato come discriminatorio, ad esempio nei confronti delle donne affette dalle succitate sindrome dell’ovaio policistico e iperplasia surrenale. Di conseguenza, la norma è ora applicata alle donne affette da DSDs corredate di un cromosoma Y, e solo per le gare comprese fra i 400 metri e il miglio, con la bizzarra conseguenza per cui un’atleta può essere contemporaneamente regolare e irregolare a seconda della gara alla quale è iscritta.

Secondo molti genetisti e medici sportivi, le donne con DSDs e iperandroginismo non dovrebbero essere trattate diversamente da chiunque presenti un tratto genetico che migliora le performance atletiche; dovrebbero quindi essere, semplicemente, ammesse alle competizioni -cosa che al momento è inibita dalla sola WA.

Ma ancora più pregnanti sono le considerazioni di natura etica legate alla pretesa di identificare per regolamento il sesso di un’atleta. Nel 2019 la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite ha condannato le regole di WA per “mancanza di ragionevolezza e obiettività”, e l’Associazione medica mondiale ha invitato i fisiologi a non prendere parte a processi decisionali di questo tipo, in quanto violano l’etica professionale e i diritti umani.

Secondo molti commentatori, questa attenzione ossessiva nei confronti del sesso delle atlete non è altro che un riflesso istituzionalizzato di una cultura patriarcale che pretende di mantenere il controllo sul corpo delle donne -e sulle donne tout court. Nel 2020 l’organizzazione non governativa Human Rights Watch ha documentato i danni psicologici, sociali e fisici subiti dalle atlete estromesse dalle competizioni per questo tipo di test, fra stigma, depressione e tentativi di suicidio.

Seema Patel, avvocata specializzata in diritto sportivo presso l’Università di Nottingham Trent, UK, ritiene che le istituzioni sportive debbano rispondere legalmente di qualsiasi azione discriminatoria e propone l’istituzione di un’agenzia indipendente che vigili su questi temi. Altri ricercatori propongono di abbandonare la distinzione nelle competizioni fra maschi e femmine e adottare un sistema più inclusivo mutuato dall’esperienza paralimpica.

“La nostra società è strutturata intorno ai concetti di sesso e di genere, ma non è per nulla inclusiva in termini di performance” evidenzia la sociologa dello sport presso l’Università Lincoln di Canterbury, NZ, Roslyn Kerr, secondo la quale le categorie agonistiche potrebbero essere composte in base alle caratteristiche fisiche necessarie per eccellere in una determinata disciplina -la stessa Kerr non si nasconde le criticità legate a un approccio di questo tipo, ma ritiene comunque indispensabile porsi il problema. Altri ricercatori propongono sistemi di classificazione ad handicap per atlete DSDs o transgender, ma certamente, come chiosa il fisiologo sportivo Stephane Bermon, “è impossibile trovare una soluzione che soddisfi tutti, ma allo stesso tempo bisogna trovare criteri ragionevoli per salvaguardare lo sport femminile”. Criteri che non possono essere puramente scientifici ma che tengano conto delle implicazioni etiche, legali e psicologiche.

Leggi l’articolo originale [ENG]

Ph. ©S.Katyshkin Pexels

 

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