Capelli

Who are you to judge the life I live?
I know I’m not perfect
and I don’t live to be
But before you start pointing fingers
make sure you hands are clean

(Robert Nesta Marley, 1945-1981)

Non bisogna mai dare niente per scontato.

Ad esempio: uno pensa che la bestialità ottusa del pubblico che segue il calcio sia un unicum, un’enorme fossa biologica nella quale si riversano tutti i liquami della società: ignoranza, aggressività, frustrazione, e che gli sport dilettantistici siano un’oasi di Valori e Cultura.

Poi capita che su Nuoto•com pubblichi una notizia apparentemente innocua e che dovrebbe tutt’al più strappare un sorriso di approvazione o un moto di curiosità sull’iniziativa di un’azienda inglese che ha messo in produzione una linea di cuffie idonee a consentire la pratica agonistica a nuotatori e nuotatrici di comunità afrodiscendenti, che nell’utilizzo di chiome voluminose trovano un elemento identitario molto forte.

I capelli, in Africa e nelle culture associate, hanno sempre avuto un valore simbolico potentissimo. Vengono utilizzati per indicare l’età, la religione (i celeberrimi dreadlocks nel rastafarianesimo giamaicano), il grado d’appartenenza a un particolare gruppo etnico, per arrivare ai cornrows,  trecce strette poste lungo il cuoio capelluto che, durante il colonialismo, le schiave portavano non solo per fini pratici durante le lunghe ore di lavoro ma come omaggio al luogo da cui provenivano.

Perfino io che in testa non ho un capello dagli anni Ottanta capisco senza difficoltà il valore affettivo, simbolico, culturale e l’importanza sociale di qualsiasi iniziativa che permetta a una quota non trascurabile di cittadine e cittadini di poter praticare la nostra disciplina senza dover rinunciare a un elemento così potente della propria identità.

(Su quanto il problema dei capelli per le donne di colore fuori dall’Africa sia stato nei secoli una fonte continua di disagio e vergogna vi rimando allo straordinario Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie)

Aggiungete che il nuoto non è solo uno sport, è un’abilità che salva la vita, ed è quindi doppiamente importante che diventi una pratica sempre più inclusiva: negli Stati Uniti il tasso di annegamento dei neri è quasi sei volte superiore alla media della popolazione.

Qualunque essere umano presentabile dovrebbe quindi salutare con favore l’arrivo sul mercato della cosiddetta Soul Cap, così come degli impropriamente detti burkini e, appunto, ogni altro prodotto o iniziativa che allarghi la platea di nuotatrici e nuotatori. E invece.

Neppure il tempo di fare il refresh alla pagina, e nei commenti alla notizia si è sciorinato l’intero campionario dell’intolleranza social: dall’inevitabile “le priorità sono altre” (peccato che nessuno spieghi mai quali sono) a dichiarazioni apertamente razziste fino a veri e propri insulti. Avviso per gli amanti dell’orrido che stanno correndo a visitare il nostro Facebook: i commenti più bestiali (circa nove decimi del totale) sono stati rimossi, ma non farete certamente fatica a immaginarli.

Ora, non sarò certo io a poter rimediare a quello che è evidentemente un fallimento delle nostre agenzie educative, ma una domanda vorrei farvela: cosa è successo di così tremendo nella vostra vita da rendervi così brutalmente inabili di comprendere i sentimenti del prossimo, così bavosamente accaniti nel respingere ogni minimo tentativo di costruire una società più decente?

Quando raccontate in giro, sugli stessi social che utilizzate per latrare contro chi non la pensa come voi, che voi o i vostri figli praticate il nuoto perché è uno sport che trasmette valori, a quali valori esattamente vi riferite? Alla pulizia etnica? Alla Shoah?

Come dice un mio caro e saggio amico, “Nessuno nasce razzista, ma bisogna accumulare anni e anni di ignoranza per diventarlo. E perdere la voglia di giocare”.

Ph. ©J. David @Unsplash

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