Miele e veleno

Gli uomini sono abituati ad uccidersi e odiarsi. L’hanno fatto per tutto il percorso dell’umanità e continuano a farlo. Le nazioni, le appartenenze, le famiglie, le religioni li hanno divisi, umiliati, accesi l’uno contro l’altro, a volte fino all’estinzione.

Lo spettacolo dei Giochi per l’umanità in questo senso è sempre una primavera. Tipi diversi, facce diverse, colori diversi combattono fino all’ultimo senza macchiarsi. Soffrono, godono, si entusiasmano, cadono. Si rialzano. E si abbracciano, piangono o ridono, ma insieme.

Qualcuno ride di fatti che possono succedere, come il Kossovo che sorpassa l’Italia perché vince più ori. Io trovo meraviglioso che possa succedere. Perché all’Olimpiade non c’è il Kossovo e non c’è l’Italia. Ci sono degli uomini e delle donne che competono fra loro per dimostrare qualcosa di sè nel loro somigliarsi in modo sorprendente.

I commenti fanno sempre di tutto perché non si capisca. Esaltano e umiliano perché gli uomini rimangano quelli della pietra e della spada: odino, si rammarichino, si deprimano.

Nella sconfitta (che con una faciloneria grottesca coincide spesso con la non vittoria) in massa son pronti all’accusa, al rimprovero, all’umiliazione dell’atleta, del tecnico, dell’intera organizzazione, di chiunque abbia osato e non sia riuscito.

Non è lecito. Non è giusto. E’ vergognoso. L’Olimpiade è occasione di celebrare gioventù e condivisone universale. Sforzi, ricerca, agonismo. Se è giusto gioire della vittoria, è più da uomini riconoscersi nella sconfitta. Chi non è capace, soprattutto quando la sconfitta è quella degli altri, è un uomo monco. Un uomo di meno, non un uomo di più.

Abbiamo i Giochi Olimpici per celebrare e condividere momenti della vita di giovani meravigliosi che si offrono per questa liturgia comune. Dobbiamo ammirarli, guardarli con simpatia e sperare che l’umanità sappia imitarli. Guai ha chi non ha l’accortezza e la decenza di amarli per quello che sono.

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