Matteo Giunta: “Tokyo una lunghissima rincorsa. Le finali al mattino una mancanza di rispetto per gli atleti” – INTERVISTA ESCLUSIVA

Per preparare quella che sarà la sua ultima apparizione agonistica, la International Swimming League, Federica Pellegrini ha scelto la piscina di Jesolo, la località balneare dove la nuotatrice veneziana trascorre da sempre le vacanze estive insieme alla famiglia.

Al termine dell’ultimo allenamento prima della partenza per Napoli, Pellegrini ha incontrato le autorità cittadine e la stampa locale per una conferenza a bordo vasca.

A margine della conferenza abbiamo incontrato coach Matteo Giunta per una sintesi di questo inaspettato biennio, fra Covid e Olimpiadi rinviate:

Buongiorno Matteo, iniziamo con un bilancio di Tokyo: che Olimpiade è stata per voi? E cosa ti ha  impressionato in positivo e in negativo?

È stata un’Olimpiade da noi fortemente voluta. Una lunghissima rincorsa dopo il rinvio di un anno. È stato un percorso molto difficile ma alla fine molto bello: c’era un forte desiderio di gareggiare e di partecipare a quest’ultima Olimpiade e abbiamo fatto tutto ciò che era nelle nostre possibilità per arrivare pronti. Sapevamo che il posticipo di un anno per Federica avrebbe rappresentato una grossa difficoltà, e dopo la prima batteria ero sinceramente preoccupato perché l’obiettivo della finale iniziava a sembrare problematico, e se la finale non fosse arrivata ci sarei veramente rimasto male. Non tanto per il risultato in sé, ma perché io sono un romantico: una sportiva come lei doveva chiudere il percorso nel modo giusto, aggiungendo alla sua straordinaria carriera questo ulteriore record di cinque finali olimpiche consecutive e godersi il momento, come poi è avvenuto.

Guardandomi intorno ho visto un’Italia molto competitiva, con le nuove leve autrici di un importante salto di qualità. Mi ha impressionato in particolare il progresso di Thomas Ceccon, ma anche gli altri ragazzi che hanno confermato alle Olimpiadi gli ottimi risultati degli Europei hanno ottenuto un risultato importante: nuotare ai Giochi comporta sempre una difficoltà e pressioni maggiori, oltre naturalmente a un fascino incredibile. I risultati di Nicolò Martinenghi e delle staffette sono stati incredibili. Un ‘Italia competitiva nelle staffette non è uno spettacolo frequente: andare a medaglia nella 4×100 stile libero e nella 4×100 mista è un segnale importantissimo: si sono viste la forza e il talento dei ragazzi e la loro unità. Questo è molto importante: non c’è stato un trascinatore, tutti e quattro hanno dato il meglio e hanno contribuito al risultato finale.

E a livello internazionale?

Per quanto riguarda quest’Olimpiade nel complesso, a costo di apparire polemico non posso non rilevare come questa scelta di sconvolgere i ritmi di gara con un calendario predisposto a uso e consumo delle televisioni sia un’ingiustizia e una mancanza di rispetto verso gli atleti. C’era già un imprevisto ovviamente non controllabile come la pandemia di Covid con il relativo rinvio di un anno, che se per i nuotatori più giovani ha rappresentato un’occasione per i veterani è stato un grosso problema. Aggiungere a questo un’agenda delle competizioni così anomala ha rappresentato un fattore di stress aggiuntivo del quale sinceramente non si sentiva il bisogno e ha a mio avviso falsato in maniera evidente alcune gare, in particolare quelle più lunghe nelle quali le finali al mattino hanno comportato risultati spesso al di sotto delle aspettative e prestazioni non all’altezza di un’Olimpiade. Ovviamente nelle gare veloci questo problema è stato meno evidente.

Detto questo, credo che l’Australia abbia disputato un’Olimpiade incredibile con due mattatrici come Emma McKeown Ariarne Titmus che si sono contese la palma di migliore atleta dei Giochi. Ma tutta la squadra nel complesso è stata al di sopra delle pur elevate aspettative. Se dagli USA ci si aspetta sempre prestazioni maiuscole, gli australiani spesso tentennano. A Tokyo, forse complice anche l’abitudine a gareggiare sulle coste dell’Oceano Pacifico, sono stati davvero impeccabili.

Non si può ovviamente non parlare di Caeleb Dressel, un atleta che non si scopre oggi ma che si è confermato senza esitazioni in quella che doveva essere la “sua” Olimpiade nonostante una concorrenza spietata, portando a casa medaglie d’oro pesanti e riscontri cronometrici di altissimo livello. Uomo dei Giochi senza alcun dubbio.

Si sono viste molte belle battaglie, con gare decise all’ultimo e pronostici sovvertiti. Tante medaglie d’oro inaspettate o comunque non scontate, a cominciare dai 200 e 400 stile libero maschili.

Non è un mistero che dopo Rio 2016 tutto il percorso fosse finalizzato a Tokyo 2020. Come hai gestito dal punto di vista psicologico e da quello metodologico questo rinvio, al quale si è poi aggiunta l’ulteriore tegola della positività al Covid? Hai “navigato a vista” o hai attuato una riprogrammazione?

I 200 stile libero femminili erano una gara difficile. Non mi piace ragionare con i se e i ma, ma certamente vedendo il terzo posto di Penny Oleksiak a 1.54.70 non posso non pensare che gareggiando nel 2020 una medaglia ce la saremmo potuta giocare. Noi abbiamo fatto tutto il possibile e abbiamo dato il massimo per arrivare al top della condizione, ma oggettivamente è stato un anno partito in salita: come ricordavi, Federica si è ammalata di Covid; è stato difficile recuperare dalla malattia e, pur migliorando via via la situazione, ci è mancata tutta la prima parte della preparazione. A maggior ragione quello che è riuscita a fare in queste condizioni è per me incredibile.

Le Olimpiadi di Rio potevano già rappresentare un punto di arrivo del percorso di Federica, ma la forte delusione conseguente al quarto posto le ha riacceso la voglia, la fame, la determinazione per dire “Non posso chiudere la mia carriera con un brutto ricordo”. Così a settembre, dopo qualche giorno di riflessione, mi ha detto di voler continuare, di voler spingere, perché quel 2016 era stato comunque un anno eccellente e sapeva di poter fare ancora qualcosa di importante. Io ero ovviamente d’accordo con lei, precisando che l’unica condizione per me era che lei volesse davvero proseguire, sapendo a cosa andava incontro e alla fatica che sarebbe stata necessaria per rimanere a livelli di eccellenza in una gara nella quale l’asticella si stava alzando in maniera esponenziale.

Dopodiché le ho proposto un anno di transizione analogamente a quanto fatto nel 2013, ma con mia sorpresa Federica ha manifestato l’intenzione di continuare ad allenarsi a ritmo elevato in vista dei Campionati mondiali del 2017: sappiamo tutti com’è andata (titolo mondiale in 1.54.73, NdR). A quel punto in realtà il progetto tecnico non era immediatamente finalizzato a Tokyo 2020, piuttosto a capire come il suo fisico avrebbe continuato a rispondere a determinati carichi di lavoro e in quale velocità di gara questo lavoro si sarebbe tradotto, ma soprattutto a quale livello sarebbe rimasta la sua determinazione. Federica ha raggiunto tutti i suoi risultati in carriera grazie a una grande determinazione e capacità di focalizzarsi sull’obiettivo. Nel nuoto basta un minimo di distrazione rispetto al percorso che dal vertice mondiale si scivola nelle retrovie quasi senza rendersene conto.

Nel 2018 abbiamo gestito un anno di recupero, quello che io avevo pensato di inserire nella stagione precedente, con l’appagamento e la soddisfazione dello straordinario titolo mondiale di Budapest, al termine del quale lei era ancora convinta di puntare sui 200 e conseguentemente abbiamo ripreso a spingere forte. Nel 2019 ci siamo preparati bene e il risultato  è stato la logica conseguenza: un’annata straordinaria, con una progressione incredibile culminata nello spettacolare titolo mondiale (1.54.22 e primato personale in tessuto, NdR) rimontando una Ariarne Titmus, lanciatissima dopo avere battuto nei 400 Katie Ledecky, e un’atleta del calibro di Sarah Sjöström. Quello che più mi ha stupito è stato il riscontro cronometrico insieme alla impeccabile gestione di gara. Per me quello di Gwangju rimane il suo migliore 200, e dopo un risultato del genere ottenuto a 31 anni ci siamo detti “Accidenti, il prossimo anno ci proviamo”.

Il 2020 era programmato sulla falsariga del 2019, poi sappiamo tutti com’è andata. La pandemia e il rinvio delle Olimpiadi sono stati un fulmine a ciel sereno, non c’è stato tempo di pensarci troppo. Ci siamo detti “siamo in ballo, balliamo”, cercando di farlo nel migliore dei modi e consapevoli che ogni anno che passa rende le cose più difficili per un’atleta nelle condizioni di Federica.

La notorietà di Federica Pellegrini è completamente fuori scala rispetto al mondo del nuoto, e non solo: non può muovere un passo senza essere circondata di attenzioni. Come si concilia questo livello di popolarità con le esigenze della preparazione?

È una situazione rispetto alla quale ho dovuto allenarmi. Nei primi tempi della nostra collaborazione non ero abituato a gestire ciò che accadeva fuori dell’ambiente acquatico, anche perché io sono una persona molto pragmatica e tendo a concentrarmi solo sulle cose che ritengo importanti per il mio lavoro. Ma mi sono rapidamente reso conto che del mio lavoro fa parte anche conciliare ogni aspetto della preparazione alle esigenze di tutto il mondo che circonda Federica e contemporaneamente proteggerla da questo bombardamento di attenzioni. Diciamo che i primi due anni sono stati di tirocinio, poi le cose sono diventate più semplici anche grazie alla presenza di uno staff che cura gli aspetti extra natatori della vita di Federica, dalla comunicazione agli eventi. Io rimango comunque sempre vigile e cerco di supervisionare tutto.

Ph. ©Deepbluemedia

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