Dawn Fraser alla terza Olimpiade

Volare a Tokyo sapendo che nessun’altra donna al mondo aveva nuotato i 100 metri sotto al minuto era un conforto per Dawn. Ma c’erano tante nuvole nere che viaggiavano con lei verso il Giappone. La più nera di tutte era il ricordo dell’incidente d’auto che aveva avuto pochi mesi prima. Era morta sua madre e guidava lei. Il senso di colpa e la tristezza dell’irreparabile gli stavano addosso. L’avversaria più forte era una quindicenne americana Sharon Stouder. Non aveva rotto ancora il muro dei sessanta. Ma era pronta a farlo.

villaggio

Il villaggio olimpico di Yoyogi del 1964 era a mezz’ora di macchina dal centro. Gli atleti ci andavano in bicicletta. I compagni stavano con Dawn se la vedevano pensierosa. Ma lei era lei. Doveva tener su il gruppo. Ed era la più vecchia. Tutte la chiamavano ‘nonna‘ e le chiedevano consigli. La sezione femminile del villaggio era recintata in funzione antiintrusione-uomini. Le tresche c’erano lo stesso, ma forse rimanevano fuori i peggiori. Tutti erano gentili quando la incontravano, specialmente i giapponesi. Anche i giornalisti. Tra squalifica, incidente e personaggio, era una ghiottoneria per le pagine dei giornali.

spirito olimpico

Harry Gallagher questa volta non c’era. Così l’unico conforto per Dawn era cercarlo nelle sue lettere. In ogni caso aveva ventisette anni, ed era in grado di gestirsi da sola. Gli serviva però lo spirito del luogo, l’emozione del villaggio olimpico e il clima della manifestazione più importante del mondo. Così quando il capodelegazione Bill Slade disse che  non avrebbe partecipato alla sfilata, come tutte quelle che gareggiavano nelle prime 48 ore, decise di non obbedire.

Forma

Se non sono abbastanza in forma da camminare in un’arena in una cerimonia di apertura e sopravvivere per nuotare qualche giorno dopo, allora non sono abbastanza in forma per competere”. Disse al suo capo sfidandolo col solito piglio. Dagli torto. Aveva già rinunciato a Roma per la stessa stupida regola e non voleva perdersi una seconda volta una delle esperienze più belle della vita. Ci teneva. Si sarebbe fatta dei nemici. Pazienza. Così si infilò sul pullman che portava gli atleti alla sfilata. Impossibile, però, restare inosservata come pensava. Al passaggio video fu subito commentata dagli speaker giapponesi. Era una star. Non poteva che essere così.

angosce

Dawn era contenta di aver trasgredito. Non conosceva però ancora il prezzo da pagare, soprattutto in termini di angoscia. Anche Marlene Dayman , la dorsista, aveva fatto come lei e naturalmente avrebbero detto che era colpa sua. Eppure quella sensazione particolare, il ruggito della folla e l’immenso orgoglio di mettersi la divisa della nazionale davanti al mondo, era stato impagabile. Al ritorno era euforica e sentiva di poter affrontare l’universo.

avversari

Prima delle batterie, però, l’euforia s’era persa. Come sempre studiò le avversarie. Voleva sapere tutto. Gli interessava principalmente la Stouder. Quante bracciate faceva? come virava? come affrontava il primo 25? Sarebbe uscita prima o dopo di lei? Come arrivava al muro? Dawn guardò tutto, introiettò. Poi vinse la  sua batteria con un buon 60,6. In semifinale spinse di più e arrivò a 59,9 . Era di nuovo sotto al minuto. La prima volta dopo i Nationals di Sidney. Naturalmente era la prima.

costume

Per entrambe le gare Dawn aveva indossato costumi non regolamentari. Quelli ufficiali stringevano troppo e non voleva metterli. Già a casa li aveva mandati indietro per farli correggere, ma erano tornati troppo stretti. Aggiustate le spalline ora  schiacciavano il petto. Impossibile respirare per un’asmatica come lei. Vallo a dire al boss. A lui non importava niente del benessere dei nuotatori. Contava lo sponsor. Alla faccia del dilettantismo dichiarato.

un amico

I costumi di Dawn li aveva fatti un amico, uno addirittura se lo era cucito da sola. Aveva cercato di farli  simili all’originale con strisce verdi e la mappa dell’Australia davanti. Ma non aveva neanche tentato di promuovere l’altra azienda. Tantomeno aveva preso soldi. In semifinale la pressione perché indossasse il costume giusto fu pesantissima. Ma Dawn aveva continuato ad infischiarsene. In finale dovette cedere, ma se ne pentì subito, perché tutti i difetti si presentarono immediatamente, aumentando il senso di disagio.

Finale.

Sharon Stouder era entrata con 1’01,4, ma Dawn sapeva che i giovani come lei potevano esplodere in ogni momento. Sapeva anche che il pericolo poteva venire da ogni parte. Dalla uno, come dalla otto, come era successo a Roma, con Natalie Steward. Anche l’altra americana, Kathy Ellis, era giovane e pericolosa. Così in camera di chiamata decise che avrebbe recitato. Aveva già fatto una sceneggiata coi massaggiatori giapponesi, fingendo di ferirsi al loro tocco e alzandosi zoppicando. Li aveva fatti ridere tutti. Continuò in camera di chiamata, in modo che nessuna potesse concentrarsi. Una recita per sé e per le altre. Dovevano pensarla super sicura, con tutto sotto controllo e con una padronanza immensa.

panico

Invece, dentro, era tutta un subbuglio. Avrebbe voluto vomitare o correre in bagno, o scappare. La pressione la schiacciava. La gara era diventata troppo importante per lei. Era tutto. Centrava anche la mamma. Doveva fare qualcosa anche per lei. Qualcosa che le sarebbe piaciuto. Poteva solo vincere. Nello stesso tempo sapeva di potercela fare. I suoi tempi erano migliori e aveva preparato ogni dettaglio.

finale

Il problema della velocità era il finale. Accettare di sentire come se la carne si staccasse dalle ossa. Questo voleva dire “tirare”. Eppure sapeva cosa voleva. Avevo programmato tutto. Sapeva che stava per fare una virata al tocco, per sicurezza, mentre la Stouder avrebbe fatto la capriola. Sapeva che l’altra sarebbe uscita prima lei, ma che l’avrebbe raggiunta quasi subito e poi l’avrebbe staccata. La Stouder non avrebbe resistito. Sarebbe rimasta alla spalla. Gli ultimi cinque metri non avrebbe respirato e l’avrebbe tenuta dietro.

tocco

Toccando Dawn sapeva tutto questo e anche di aver vinto. Si tocca, si spera e si guarda. 59 e 5 diceva tutto. Quattro decimi meno del suo migliore. L’americana però era a 59.9. Niente male. Sdraiata sull’acqua Dawn aveva cominciato subito a godere di quello che aveva fatto. Harry, per la prima volta, non era tra la folla a dividere la gioia con lei. Ma non era sola. Con lei c’era l’immenso orgoglio di aver fatto qualcosa di unico e la tristezza infinita per la mamma che si univa al piacere di aver vinto per lei. Provò anche sollievo, perché era finita una lunga sfida. Infatti era la prima nuotatrice della storia a vincere tre medaglie d’oro consecutive nella stessa gara. Un altro grande record per aumentare la nostalgia.

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