L’ansia, questa conosciuta

Eccola, è apparsa dal nulla. Improvvisamente. Assente per anni, malcelata da qualche giorno di questo pre-gara, sbocciata rovinosamente in tutto il suo angoscioso splendore oggi nel tragitto verso l’impianto e manifestatasi drammaticamente con una nuotata preoccupata e affannosa, sua maestà: l’Ansia.

Non mi preoccupa affatto che mio figlio soffra d’ansia da prestazione, specialmente dopo che io ho preso i tranquillanti.

Qualche bambino prima, qualcuno dopo, ci si imbattono tutti, quasi inevitabilmente.

E accade così: fino a ieri i nostri ragazzi avevano saputo gareggiare con allegria fanciullesca, divertiti e divertendosi, avevano iniziato a raccogliere i frutti del loro faticoso allenamento, magari arrivando a qualche piccola soddisfazione o trovando comunque la via per le proprie.

Poi c’è la costanza, quel riuscire a rispettare le proprie aspettative, sempre con leggerezza, giocando.

Ma un bel giorno la fanciullezza finisce (la nona di Beethoven tuona in lontananza).

I ragazzi iniziano a rendersi conto che possono fare un sacco di errori. Iniziano ad aver paura di perdere la propria posizione. Capiscono che gli avversari stanno aumentando e che certi iniziano ad andare più forti di loro. Sentono il problema di amici e parenti che si aspettano successi. E io genitore, solido punto di riferimento, solo a scrivere questa parte di articolo sto andando in iperventilazione.

Assistiamo così, un bel giorno, inermi alla prima gara “ansiogena”: la nuotata sgraziata, virate meccaniche, il tempo che inevitabilmente si alza di secondi col risultato che manifesta esattamente quella preoccupazione irrazionale che si era materializzata nelle loro menti.

E ora? Cosa possiamo fare? Sappiamo che l’ansia è fondamentalmente la paura di eventi non gestibili che spesso sono totalmente fuori dal nostro controllo.

Nel nuoto non possiamo frenare gli avversari. Non possiamo prevedere quanti andranno improvvisamente più veloci di noi. Non possiamo avere garantita la medaglia, anche se ne abbiamo vinte mille fino a oggi.

Poi l’ansia non è facile riconoscerla, individuarla e tantomeno risolverla. Non è cercando in un articolo scritto da un buontempone, sebbene su un sito internet di prima qualità, che troveremo la soluzione a un problema così innato nell’essere umano.

Tuttavia per noi genitori lo sport dei nostri figli è innanzitutto una crescita personale.

Agli aspetti tecnici e come non aver paura di sbagliare una virata, penserà l’allenatore. Agli aspetti emotivi possiamo contribuire a pensare noi facendoci delle domande:

  • le sue gare mi mettono ansia?
  • vederlo preoccupato prima di una gara?
  • sono preoccupato di un suo fallimento? Se sì, cosa ritengo un suo “fallimento”?
  • perderà il phon anche oggi?

In generale, nessuno di questi fattori dovrebbe metterci ansia.

Agitati noi, agitati loro. Pressanti noi, sotto pressione loro. Dobbiamo crescere per lasciarli crescere. Ho anche altre frasi a effetto ma dovremmo esserci capiti.

La loro ansia da prestazione sarà risolta con un percorso individuale, ogni genitore per sé, così l’allenatore, così il ragazzo, ogni attore in campo dovrà percorrere il proprio e il risultato sarà collettivo.
Ci potrebbero volere mesi, anni, una vita. Ci sono scheletri ritrovati nella posizione del mangiarsi le unghie, probabilmente in vita facevano i 200 misti.

L’allenatore non avrà incertezze nello spiegare gli aspetti tecnici. Noi genitori non dovremo avere incertezze nel dimostrare affetto e sostegno, indipendentemente dal risultato sportivo, indipendentemente dal sorriso o meno con cui i nostri figli usciranno dall’impianto.

I ragazzi di conseguenza avranno intorno basi solide (tecniche e affettive) e la possibilità di concentrarsi su loro stessi. Impareranno a riconoscere i danni di certe preoccupazioni, intercettarle e scacciarle via in tempo.

E risolveranno le loro ansie ben prima di noi, beati loro.

 

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