Team Barlaam: Claudia, Riccardo, Alice e Simone. Una famiglia che diventa squadra.

Un’intervista? Forse… inizialmente era stata pensata così.

Ma poi, chiacchierando con Claudia e Riccardo Barlaam, seduti a quel bar in spiaggia, ne è uscita una bellissima storia da raccontare. Non poteva essere trascritta come un’intervista, non c’erano domande e risposte: c’erano tanti aneddoti, ricordi, emozioni. C’era il vissuto di una famiglia, un lavoro di squadra fatto come neanche il miglior coach sulla Terra poteva pensarlo. 

È una storia che deve essere raccontata, per mille e più motivi: perché spesso ci lamentiamo per sciocchezze, non capendo la ricchezza di cui siamo circondati. Perché spesso cerchiamo la perfezione, dimenticandoci quanto ci rendono speciali le nostre imperfezioni. Perché non accettiamo le sconfitte, senza capire che sono parte integrante della vittoria. Perché la vita è un’avventura bellissima e abbiamo il diritto, ma anche il dovere, di viverla meravigliosamente. 

L’unica domanda e l’unica risposta durante la nostra chiacchierata sono state queste:

“Cosa significa essere genitore di un atleta di alto livello?”

“È un gioco di squadra, a tutto tondo.”

Questa è stata la risposta. Ed è stato anche l’inizio di un racconto che ho ascoltato a bocca aperta.

Simone Barlaam nasce il 12 luglio del 2000. È nato con una coxa vara e un’ipoplasia congenita del femore destro. Il tutto aggravato da una frattura del femore avvenuta in utero. A dieci giorni di vita è stato operato perché questa frattura si era già consolidata. All’età di sei mesi si è scoperto che lui in realtà aveva un ritardo di ossificazione e quella parte di osso che gli era stata asportata a dieci giorni dalla nascita non è più ricresciuta. 

Mamma:

Simone ha cominciato a nuotare seriamente a quindici anni, anche se il nuoto è sempre stato parte della sua giornata e della sua vita. Simone ha fatto 12 interventi chirurgici e il nuoto era l’unica attività che poteva svolgere. Quando ci siamo trasferiti fuori Milano lui aveva sette anni e ha iniziato a praticare il nuoto a livello agonistico con la squadra del Magenta insieme ad altri bambini normodotati. 

Simone in acqua stava bene, gli è sempre piaciuta, e così un giorno ha espresso al suo istruttore il desiderio di fare le gare. Il suo esordio è stato con una gara a dorso dove è arrivato terzo su tre. 

Noi non avevamo nessuna pretesa, non avevamo assolutamente spinto per l’agonismo: un suo vecchio istruttore lo aveva stimolato in questo senso, ma a noi bastava che facesse attività sportiva e che fosse contento. 

Nel 2005 Simone doveva fare un intervento per allungare l’arto. Era un intervento importante, che a livello temporale avrebbe richiesto tutto l’anno. Alice era alla scuola materna e Simone iniziava la primaria. Abbiamo chiesto alla psicologa della scuola materna un aiuto per spiegare a un bimbo di cinque anni che avrebbe dovuto mettere sette chiodi sulla gamba, e che ogni giorno mamma e papà dovevano girare di un millimetro la chiave per poter fare l’allungamento. La cosa non era solo delicata, ma anche dolorosa. E noi avevamo davanti due bambini di cinque e due anni. La psicologa ci disse che solitamente le ospedalizzazioni e gli interventi chirurgici non erano mai qualcosa di traumatico per i bambini. I veri traumi per un bimbo nascono nei problemi di relazione con la famiglia, dal fatto di non sentirsi accettati, dal sentirsi la colpa per un qualcosa che in realtà non è dipeso da loro. L’unica cosa che la psicologa ci ha consigliato di fare era di prestare molta attenzione alla sorellina più piccola. Perché il rischio era che, in buona fede e in maniera assolutamente inconsapevole, lei potesse sentirsi in qualche modo trascurata. 

Quindi quello che noi abbiamo sempre cercato di fare anche con Alice era di coinvolgerla. Ci aiutava in tutto: nei primi interventi di Simone, io allattavo Alice e quindi veniva praticamente ricoverata anche lei perché non potevo lasciarla. La famiglia è sempre stata presente come una squadra, anche nella parte ospedaliera. 

 

Papà:

Anche quando Simone era più piccolo, noi genitori ci siamo sempre fatti aiutare da una psicologa, facevamo dei colloqui durante i quali lei ci sconsigliava vivamente di nascondere la cosa. Quando era alla scuola elementare e qualche bambino lo prendeva in giro esortavamo Simone a mostrare le sue gambe e far vedere loro come riusciva a camminare. In questo modo passava dall’essere bullizzato all’essere un eroe. 

Spesso più che i bambini erano i genitori a essere a disagio. Anche quando eravamo in vacanza al mare, gli adulti chiedevano cosa fosse accaduto. A volte Simone non aveva voglia di raccontare e inventava cose del tipo “Mi ha morsicato uno squalo”. 

È un messaggio che abbiamo provato a diffondere parlando con altri genitori che hanno dei figli nati con una qualche disabilità, o sopravvenuta a seguito di incidenti: se i genitori per primi non accettano, non è pensabile che il figlio possa accettare e vivere serenamente con la sua disabilità. A quel punto davvero la disabilità può diventare un problema. Invece deve essere una caratteristica. 

Durante questo intervento di allungamento del femore però Simone ha contratto una brutta infezione, un’osteomielite che purtroppo qui in Italia non avevano diagnosticato e ha rischiato la sepsi e la perdita totale della gamba, con conseguente amputazione dell’arto. Alice doveva iniziare la scuola elementare, papà Riccardo si è preso sei mesi di aspettativa dal lavoro ed è stato in Francia con Simone e mamma Claudia si divideva tra Alice e Parigi. È stato a dir poco impegnativo. A raccontarla ora quasi si sorride, ma ci sono stati dei momenti veramente difficili. 

Dopo l’intervento ha dovuto fare riabilitazione e successivamente un altro intervento per stabilizzare l’anca. Siccome non era già abbastanza quello che aveva passato, si è rotta la placca che gli avevano messo e ha dovuto fare un trapianto osseo: dopo 6 mesi di riabilitazione, l’ultimo giorno, in cui stava salutando tutti, giocando con una fisioterapista ha fatto un movimento brusco e si è spaccata la placca. Quello è stato un momento veramente buio, sembrava non ci fosse luce alla fine del tunnel. 

E quindi la famiglia è tornata in ospedale per un nuovo intervento. Il medico che ha operato Simone ha voluto studiare approfonditamente il caso prima di metterci mano. L’intervento è durato undici ore, ha preso un pezzo di cresta iliaca ricca di cellule staminali, ha fatto un trapianto osseo e ha rifilato l’anca con una placca di acciaio ancora più grande. 

Fino ai 10 anni è andato avanti così, accompagnando le sue vicende al nuoto. Poi con la scuola media si era un po’ disinnamorato di questo sport. Aveva cambiato tecnico e probabilmente questa persona non investiva più di tanto su Simone. Quindi il ragazzo si annoiava un po’, era poco stimolato. 

Papà Riccardo lo ha avvicinato al triathlon e al paratriathlon nel periodo in cui aveva trascurato il nuoto.

Papà:

Ho scritto un paio di libri sullo sport: non sono agonista, bensì un amatore, ma nel vero senso della parola. A volte un amatore di alcune discipline sportive va anche verso gli eccessi, io invece mi riferisco a quelle persone che praticano con passione. Ho cominciato con la corsa, facevo qualche maratona, poi mia moglie Claudia mi ha regalato una bici da corsa e ho cominciato anche con quella. Ho aggiunto il nuoto e ho cominciato a praticare il triathlon. Sono dell’idea che lo sport ti aiuta ad affrontare le sfide della vita quotidiana e questo sentire ho cercato di trasferirlo anche nei miei libri. 

Con Simone è stato un percorso davvero interessante: siamo a tutti gli effetti una squadra. Abbiamo avuto tutti insieme questo tipo di approccio: non abbiamo mai voluto nascondere la disabilità di Simone. A 10 anni ha voluto imparare ad andare in bicicletta. 

Un artigiano gli ha adattato una bici e un’estate abbiamo fatto da Parigi a Londra pedalando insieme. Una settimana così: ci siamo battezzati “Due uomini e una gamba”, parafrasando il film comico di Aldo, Giovanni e Giacomo, dove la gamba era la protesi di Simone. Quattrocento chilometri: la sfida era arrivare a Londra. Se ci riusciva gli concedevo una birra e gli insegnavo a tagliarsi la barba. In questo modo lui ha imparato ad andare benissimo con la bici da corsa.

Da questa cosa, attraverso amici, è nata l’idea di partecipare a una competizione di paratriathlon. Ma c’era l’inghippo della corsa. Un nostro amico è passato a prenderlo e se l’è portato a Riccione, noi non lo sapevamo ma c’erano i campionati italiani di paratriathlon. È tornato a casa con il bronzo. La frazione dove doveva correre l’ha fatta con le stampelle: due chilometri e mezzo percorsi con le stampelle. Ritornato a casa era euforico, felice e soddisfatto, soprattutto della frazione a nuoto, dove aveva lasciato tutti dietro. 

 

Mamma:

Per ridere ho detto a Simone che doveva provare con il “paranuoto”, non avevo neanche idea di come si chiamasse precisamente la disciplina sportiva.

Dopo un pomeriggio passato nella sua cameretta, all’età di quattordici anni, è uscito e ci ha detto: “Ho trovato il nome del tecnico che mi può allenare! Si chiama Max Tosin! Esiste la Federazione Italiana di Nuoto Paralimpico.”

Riccardo chiamò Max il giorno stesso. 

Max ci spiegò le modalità con cui si allenava la sua squadra, propose di farlo venire una sera in piscina e poi valutare insieme. 

In quell’occasione Simone conobbe Federico Morlacchi, che aveva la sua stessa disabilità, e vide ciò che Federico riusciva a fare. Disse “Ce la posso fare!”. Stava finendo la terza media e doveva iscriversi alle scuole superiori; Max con Simone fu chiaro fin da subito, gli disse: “Se vuoi venire a divertirti e nuotare in compagnia, vieni pure qualche volta. Se vuoi allenarti per diventare forte, lo devi fare tutti i giorni.” La risposta di Simone è stata “Lo voglio fare”. 

In quel momento è uscito il gioco di squadra della famiglia: un ragazzino di quattordici anni che si deve allenare dall’altra parte della città come lo trasporti? Doppi allenamenti, due ore di strada ogni volta e io con il computer a lavorare e aspettare Simone fuori dalla piscina. Questo per tutto il primo anno. Dal secondo anno avevamo visto che c’era il treno che portava a Lambrate e i ragazzi della squadra, tra cui Federico, ci dissero che poteva andare con loro. Così facevano il tragitto insieme, durante il quale Simone mangiava e studiava. 

Noi con Simone fummo chiari da subito: “Se vuoi farlo, fallo. Ma la scuola non ne deve risentire”. Da quando gli abbiamo detto così, lui ci teneva talmente tanto che il suo atteggiamento nei confronti della scuola è cambiato. C’erano meno dispersioni, si organizzava meglio e quindi anche i risultati erano migliori. 

Noi genitori lo abbiamo sempre sostenuto ma volutamente ci siamo tenuti sempre un passo indietro rispetto alle sue scelte. Stessa cosa con l’allenatore. Addirittura Simone quando ha iniziato ad allenarsi con Max non voleva che andassimo a vederlo in gara. Le prime gare non le abbiamo viste: era come se lui volesse trovare la sua sicurezza nello sport da solo. È stato lui che un giorno ci ha detto “adesso potete venire”. 

In una delle sue prime gare a Bergamo, insieme a Max, era un po’ imbarazzato perché non sapeva tuffarsi. Idem per la virata. Max lo affiancò a Federico Morlacchi perché potesse insegnargli tutto questo. Federico poteva essere il suo rivale e invece si è trasformato in un fratello maggiore. Hanno sette anni di differenza. Così quando ci fu la gara a Bergamo Simone fece il tempo per i campionati italiani. Federico aveva sempre sostenuto Simone perché in lui vedeva un potenziale pazzesco. 

 

Papà: 

Abbiamo avuto con il nuoto lo stesso approccio che avevamo avuto con la bicicletta: c’è una difficoltà? Insieme la superiamo. 

Dalla mamma ha preso la voglia di vincere, da me la tenacia nel non mollare e il FairPlay nei confronti degli avversari, l’amore per lo sport pulito. 

Simone è un ragazzo che fa squadra, ama il gruppo e i suoi compagni sono anche i suoi amici. È importante anche per lui, perché lui dà tanto alla squadra, ma allo stesso tempo riceve tanto. È un ragazzo estroverso, è sempre stato solare, fin da neonato era sempre sorridente. La cosa che abbiamo sempre osservato fin da piccolo era che anche quando andavamo per esempio al ristorante, lui dopo un po’ era diventato amico di tutti. È un ragazzo curioso e le vicissitudini riguardanti la sua disabilità non lo hanno intaccato. 

 

Mamma:

Fin da quando erano piccolini abbiamo detto ai nostri figli che il quarto anno di liceo glielo avremmo fatto fare all’estero. Era una cosa che era mancata a noi genitori e volevamo dare ai nostri ragazzi questa opportunità per imparare bene l’inglese come se fosse la prima lingua. Per Simone però c’era la questione del nuoto, così ne abbiamo parlato con il suo allenatore. Max a Rio De Janeiro si è attivato e ha trovato la sistemazione per Simone in Australia. Aveva dei contatti con un allenatore lì e così ha potuto coniugare scuola e sport. Abbiamo fatto il percorso inverso: anziché scegliere la piscina in funzione della scuola abbiamo scelto la scuola in base a dove Simone si sarebbe allenato. Ha trovato poi una famiglia che poteva ospitarlo e supportarlo. Lui tutte le mattine si alzava alle quattro, senza che gli fosse stato richiesto. La Host Mom che lo ospitava ha scritto una relazione, dopo circa un mese, in cui esprimeva il suo più autentico, ma positivo stupore per questo ragazzo di sedici anni che arrivava dall’altra parte del mondo senza parlare perfettamente la lingua, che tutte le mattine alle quattro si alzava per poter essere in acqua ad allenarsi alle cinque. Dalle cinque alle sette allenamento; dalle sette alle otto colazione; dalle otto alle quindici scuola; dalle quindici alle diciassette palestra; dalle diciassette alle diciannove di nuovo nuoto. Tutto questo per un anno intero. Andava a dormire a mezzanotte circa perché comunque doveva anche studiare. 

Prima di partire per l’Australia aveva fatto ai campionati italiani assoluti il tempo che lo qualificava per i Mondiali di Città del Messico. Max ci disse di verificare il tipo di visto che aveva Simone, che era ovviamente un visto utilizzabile una volta in entrata e una volta in uscita perché studente, e per di più minorenne. Abbiamo allora modificato il visto, perché potesse essere pronto qualora lo convocassero. 

La convocazione per il Mondiale arrivò. Nel frattempo Simone aveva compiuto diciassette anni, e doveva quindi viaggiare da solo da Sydney a Città del Messico, facendo un cambio a Los Angeles. E così ha fatto: arrivato a Città del Messico ha aspettato in aeroporto che arrivassero gli altri atleti da Roma. Per non farci mancare nulla, durante i Mondiali di Città del Messico c’è stato il terremoto e la competizione è stata annullata. Max e il commissario tecnico Riccardo Vernole stavano organizzando il rientro di tutti gli atleti, ma non se la sentivano di lasciare Simone da solo a rientrare in Australia dopo un’esperienza come quella del terremoto. Perciò ci chiesero se eravamo d’accordo a farlo rientrare in Italia con gli altri. È tornato e Max ci disse che ci sarebbe una gara in Olanda ad Eindhoven: così partiamo con il pulmino e facciamo a turno nella guida per arrivare in questa località dove era stata organizzata una competizione in alternativa al Mondiale annullato. Con il pulmino siamo partiti, tutta la famiglia compresa Alice e Max, facendo a turno per guidare.

Per tornare alla famiglia: quando un atleta è a questi livelli, ognuno deve dare un pezzettino di sé perché altrimenti non vai avanti da solo. Qualcuno deve togliere per mettere da qualche altra parte e viceversa. 

 

Mamma:

Per Simone c’è stato un momento di crisi e quel momento sono state le Olimpiadi di Tokyo. Lui veniva dal mondiale 2019 di Londra dove aveva vinto tutto. Era molto sereno, soddisfatto, si divertiva e sorrideva sempre. C’era il sogno di questa Olimpiade ed è andato tutto bene fino a quando è arrivata la pandemia. Il Covid lo ha mandato in tilt: lo spostamento di un anno gli ha consentito di prepararsi da un punto di vista fisico sicuramente meglio. Ma da un punto di vista psicologico e mentale per lui è stato devastante. Ricordo ancora il momento in cui ne parlai con Max: in allenamento andava ancora benissimo, ma a casa era irriconoscibile. Era diventato maniacale, terrorizzato all’idea di poter prendere il Covid. L’isolamento sociale di quel periodo non ha sicuramente aiutato, anzi. Lui mentalmente non c’era più: aveva perso il suo sorriso, il suo modo di essere allegro e solare. Quando è arrivato a Tokyo, in questa piscina enorme, senza pubblico, senza i compagni, pieno di paure, ha vinto l’oro con un tempo non alla sua altezza, perché si è reso conto che il corpo andava alla grande, ma la testa non c’era più. Da lì la grande consapevolezza di quanto l’aspetto mentale sia incisivo su una prestazione. Le aspettative e la paura del momento storico che stavamo vivendo sono stati per lui un cocktail micidiale. Come genitori non potevamo sostituirci a lui e quindi abbiamo cercato di sostenerlo, di tranquillizzarlo e di aiutarlo affidandosi a delle persone che potessero dargli una mano. Senza pregiudizi di alcun tipo. Si è affidato a Michaela Fantoni, una bravissima psicologa dello sport con la quale è tutt’ora in contatto, e hanno iniziato a sentirsi telefonicamente con regolarità. Poi ha cominciato a rivedere gli amici, a uscire, e quindi piano piano si intravedeva la luce in fondo al tunnel. Dopo l’Olimpiade ha voluto cambiare la squadra, si è allenato con una squadra FIN in Bocconi, aveva bisogno di nuovi stimoli.

Da mamma, quando è rientrato da Tokyo, ho pensato che avrebbe mollato tutto. Era arrivato al limite. Invece dopo quell’estate è stata tutta in discesa: a Madeira ha fatto ottimi risultati e si è reso conto che stava tornado quello di sempre e la testa c’era. Quando Simone vince le gare ha un’espressione sorridente, giocosa. A Tokyo, dopo quel 50 stile, la sua espressione è stata di sollievo, non di gioia, pur avendo vinto. Simone raccontava dell’ansia nel camminare per il villaggio olimpico, passando davanti al punto in cui prelevavano gli atleti che erano risultati positivi al Covid perché ogni giorno facevano al mattino e alla sera il tampone. Vivevi con la paura che potesse toccare a te e di dover buttare anni e anni di allenamenti. 

C’è da chiedersi se un genitore può immaginare di vivere tutto questo con un figlio.

Mamma:

No, neanche nel film americano più a lieto fine che si possa immaginare. Questo lo diciamo sempre. Non era assolutamente una cosa alla quale pensavamo. Quando ha iniziato a fare agonismo, per noi aveva già vinto. Non c’era medaglia più grande se non quella di vederlo autonomo, realizzato, felice per aver rincorso un sogno, il SUO sogno, e in certo senso averlo realizzato. È quasi paradossale: un ragazzo che nasce con una disabilità e diventa un campione nello sport. Ciò che poteva essere un limite è diventato un punto di forza. 

Alle elementari c’erano i Giochi della Gioventù e anche lui voleva partecipare. Faceva cose semplici, ma ha sempre voluto partecipare. Alla scuola media ci chiesero se come genitori volevamo fare l’esonero per Simone dall’attività fisica. La risposta è stata “No, nella maniera più assoluta”. L’unica cosa che chiedemmo è stata se durante alcune attività che non erano alla sua portata Simone poteva comunque pedalare sui rulli e quindi allenarsi con la bici. Alle scuole superiori abbiamo parlato con gli insegnati per tranquillizzarli e spiegare loro che Simone poteva fare comunque delle attività con i compagni, abbiamo raccontato loro il suo percorso sportivo, ma leggevamo nei loro occhi solo stupore e incredulità. Penso che nessuno avrebbe scommesso su di lui. 

 

Papà:

Il pietismo è l’ultima delle cose che un atleta paralimpico vuole; i ragazzi fanno le stesse ore di allenamento, le stesse fatiche, gli stessi sacrifici e la vittoria non è scontata. Simone ha voluto nuotare questo ultimo anno con gli atleti FIN per dare voce e visibilità ai suoi compagni, a tutti quelli che fanno parte del movimento paralimpico e non godono (ingiustamente) della visibilità che meriterebbero.

Conoscere un po’ più di questo ambiente farebbe bene a molti: ti rendi conto che alcune persone la mattina si alzano e cominciano a vivere, quando avrebbero una serie di buoni motivi per non farlo. E invece sono lì e assaporano la vita attimo dopo attimo. Si concentrano sul “qui e ora”, senza pensare a ciò che manca e valorizzando ciò che c’è.

Grazie a Giorgio Scala e alla famiglia Barlaam per il materiale fotografico

AMODEO Alberto Polha – Varese A.Pol.D., BARLAAM Simone G.S Fiamme Oro/Polha – Varese A.Pol.D.
Fabriano, 27/11/2022
Campionati Italiani Assoluti di Nuoto Paralimpico Vasca Corta FINP
Photo Giorgio Scala / Deepbluemedia / Insidefoto

 

BARLAAM Simone G.S Fiamme Oro/Polha – Varese A.Pol.D.
100m Individual Medley Men
Fabriano, 26/11/2022
Campionati Italiani Assoluti di Nuoto Paralimpico Vasca Corta FINP
Photo Giorgio Scala / Deepbluemedia / Insidefoto

 

BARLAAM Simone G.S Fiamme Oro/Polha – Varese A.Pol.D. celebrating World Record
50m Backstroke Men
Fabriano, 26/11/2022
Campionati Italiani Assoluti di Nuoto Paralimpico Vasca Corta FINP
Photo Giorgio Scala / Deepbluemedia / Insidefoto

 

BARLAAM Simone G.S Fiamme Oro/Polha – Varese A.Pol.D.
50m Backstroke Men
Fabriano, 26/11/2022
Campionati Italiani Assoluti di Nuoto Paralimpico Vasca Corta FINP
Photo Giorgio Scala / Deepbluemedia / Insidefoto
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