Shayna Jack: la mia verità

Con una lettera aperta pubblicata sul suo profilo Facebook la nuotatrice Shayna Jack, fresca di positività all’antidoping, ha voluto esprimere il suo punto di vista sulla vicenda. Scrive Jack:

Il giorno in cui la mia vita si è capovolta

Il 12 luglio sono stata convocata nella stanza del capo allenatore di Swimming Australia; ero di ritorno dallo shopping con le mie compagne di squadra. Ignara di ciò che mi attendeva, ero come mio solito allegra e spensierata. Tutto è cambiato dopo aver varcato la soglia ed aver appreso che aveva chiamato la ASADA (agenzia antidoping australiana, NdR). Il mio cervello ha iniziato a vorticare, ci doveva essere qualche errore, non avevo mai saltato un test antidoping, non era il mio turno di controlli, perciò cosa potevano volere da me? Mi sono seduta e ho richiamato la ASADA, mi ha risposto una donna che ha pronunciato la frase più temuta da ogni atleta: “I suoi campioni sono risultati positivi a una sostanza proibita”.

Ho sentito il mio cuore andare in pezzi. Non avevo più il fiato per rispondere alle domande successive. Non c’era niente che potessi fare in quel momento, e nessuna delle persone che mi erano vicine poteva aiutarmi. Ero in stato di shock, mi chiedevo perché stava capitando a me. Il mio cervello ripeteva in continuazione: “ho sempre fatto attenzione a ciò che mangio”, “non sono stata io”, non ho fatto niente di male”. Nel frattempo la donna al telefono mi diceva che dovevo abbandonare il villaggio e tornare a casa, essendo stata sospesa in via precauzionale fino alle controanalisi sul campione B. Poi mi ha spiegato quale sostanza era stata rinvenuta nel mio sangue, un nome che non avevo mai sentito prima, “Ligandrol”. Mi hanno spiegato che è una sostanza che si può trovare in integratori alimentari contaminati.

Dopo molte ore di pianto e sconforto, ho fatto le valigie e una lunga passeggiata con il mio allenatore Dean Boxall, mentre il resto della squadra veniva informato della mia partenza senza ulteriori spiegazioni. Avrei voluto parlare con le mie compagne e spiegare cosa stava succedendo. Mi sentivo così vulnerabile. Ma sapevo che dovevo lasciarle concentrate su sé stesse, per tenere alti i colori australiani senza di me.

Avevo troppo rispetto del mio team e del nuoto per  rovinargli questo momento, così sono tornata a casa e non ho detto niente. Ho sofferto come mai nei miei vent’anni di vita. Il confronto con i miei genitori, fratelli, nonni, il mio ragazzo mi ha distrutto. Non ho assunto volontariamente quella sostanza, non sapevo neppure che fosse dentro di me. Mi sembrava e mi sembra ancora oggi una cosa insensata, 

Il 19 luglio sono arrivati i risultati del campione B. Avevo delle speranze, sapevo di non avere assunto quella sostanza, speravo si trattasse di un falso positivo e di poter tornare a gareggiare per il mio paese o almeno di potermi riunire alla squadra. Quando ho letto i risultati, il mio cervello si è rifiutato di capire. Ho dovuto rileggerlo più volte, sempre con la stessa sofferenza nel cuore e nella testa. Mi sono voltata verso mia nonna, che era rimasta con me tutto il tempo, e sono svenuta.

Da allora non chiudo occhio, e avverto un senso di vuoto. Ho pensato a quanto duramente ho lavorato per vedermi poi portare via tutto, senza avere fatto nulla di sbagliato. Da quando avevo dieci anni volevo far parte della squadra nazionale per rappresentare il mio paese. Non ho mai nuotato per le medaglie; quelle sono sempre state una soddisfazione aggiuntiva. Nuotavo per il brivido che si prova quando si sale sul blocco indossando la cuffia gialla dell’Australia. L’eccitazione che sale quando si gareggia in una staffetta con un gruppo di ragazze straordinarie che condividono un obiettivo. Ero fiera di essere diventata la donna che sognavo di essere da bambina, non per le medaglie vinte, ma per l’immagine che davo di me fuori e dentro la piscina. Ora sento che perderò tutto per una contaminazione alimentare; nessun atleta è al sicuro da questo rischio.

Il pensiero del perché nuoto e del perché volevo far parte della squadra nazionale è ciò che mi dà la forza di combattere. Il giorno in cui sono risultata positiva è il giorno in cui ho iniziato a combattere per dimostrare di essere innocente. Io, il mio avvocato, il mio manager, il mio medico e la mia famiglia stiamo lavorando ininterrottamente non solo per provare la mia innocenza ma anche per capire come posso essere entrata in contatto con quella sostanza, per fare sì che non accada a nessun altro, perché non augurerei questa esperienza al mio peggiore nemico.Ogni giorno è un ottovolante: certi giorni sto bene, altri no. È una sfida aperta, non solo per provare la mia innocenza e poter riprendere ad allenarmi per inseguire i miei sogni di bambina, ma anche per dover affrontare il giudizio di persone che non mi conoscono, e che penseranno il peggio di me.

Ho seguito e tifato per ogni componente della squadra australiana durante i Mondiali. Ero inconsolabile e guardavo la mia compagna Ariane Titmus (con cui condivide l’allenatore, NdR) vincere i 400 stile libero, e le altre ragazze compiere imprese grandiose nella 4×100 e nella 4×200, staffette delle quali speravo avrei fatto parte. Mi sono allenata duramente per essere lì a gareggiare, ma conosco le regole della ASADA e ho seguito tutte le loro indicazioni. Dentro di me so di non dover difendere la mia reputazione, perché non ho mai saltato un test, e mi sono sempre comportata correttamente. So che in Australia è impossibile per un atleta doparsi intenzionalmente e non essere scoperto. Vengo testata in media ogni sei settimane, quindi perché avrei dovuto assumere sostanze proibite? Specialmente in prossimità di una competizione che prevede test quotidiani. Perché avrei dovuto procurarmi una tale angoscia e mettere a rischio la mia carriera? Non ho imbrogliato, e continuerò a lottare per la mia reputazione.

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