Antonio La Torre: atleti top richiedono allenatori top, per coltivare l’ossessione verso l’eccellenza

Forse oggi andiamo verso un modello diverso, con più eventi stagionali di interesse e l’atleta che sceglie in quali e quante occasioni cercare di esprimersi al meglio, con i tecnici incentivati a sviluppare un nuovo approccio metodologico, analogamente a quanto accade per esempio nell’atletica leggera dove gli atleti ricercano il maggior numero di vittorie anche a scapito della prestazione assoluta

Queste le considerazioni del direttore tecnico delle Squadre nazionali Cesare Butini formulate nel corso della nostra conversazione del 4 aprile.

Non potevamo non raccogliere uno spunto così stimolante e abbiamo preso contatto con Antonio La Torre, Direttore Tecnico della Federazione italiana di atletica leggera (FIDAL) e uno dei principali artefici della trionfale spedizione azzurra che è tornata dalle Olimpiadi di Tokyo con cinque storiche medaglie d’oro.

Fra le tante rivoluzioni del dopo pandemia, la comunità del nuoto si trova a fronteggiare una situazione inusuale per uno sport che ha sempre ragionato in termini di un singolo evento-obiettivo stagionale: un sovraffollamento di calendari determinato dallo slittamento di eventi imposto dal Covid, dallo scarso coordinamento  fra istituzioni internazionali e dalla comparsa di un nuovo attore, la International swimming league (ISL) che prima della sospensione delle attività a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina aveva collocato diciassette eventi all’interno di un calendario già affollatissimo, con Mondiali ed Europei separati da un intervallo di neppure due mesi. In questo contesto cambia evidentemente il mestiere del direttore tecnico -Cesare Butini ci raccontava di come si trova costretto a comporre tre differenti rappresentative nazionali per onorare tutte le manifestazioni, e si modifica completamente l’orizzonte metodologico, con gli atleti che possono scegliere fra un’ampia rosa di eventi di prestigio e quindi, anziché inseguire la singola prestazione ottimale cercheranno di mantenere il livello più elevato possibile nel corso di differenti manifestazioni all’interno della stagione. Una situazione alla quale nell’atletica leggera siete già abituati e relativamente alla quale ti chiediamo qualche considerazione.

Inizierei col dire che il lavoro di noi direttori tecnici è stato completamente stravolto dalla pandemia di Covid. Vale per noi dell’atletica leggera, che come giustamente osservava Cesare siamo già abituati a gestire calendari affollati, ma anche per i colleghi di tutte le altre discipline che sono stati costretti a rivedere completamente i criteri di programmazione e di quella che una volta chiamavamo periodizzazione.

Personalmente faccio un ragionamento molto semplice: il perno di tutto è Parigi 2024. Tutto ciò che la precede è finalizzato a raggiungere il massimo della forma in occasione dell’evento olimpico. Questa consapevolezza aiuta poi ad assegnare il giusto peso a ogni altra manifestazione.

A questo riguardo va poi fatta una distinzione fra la massa dei praticanti e l’atleta di alto e altissimo livello, che delle manifestazioni secondarie si può non dico disinteressare ma utilizzarle come tappe di un percorso. Tutti i nostri campioni olimpici quest’anno parteciperanno sia ai Campionati del mondo di Eugene e ai Campionati europei di Monaco di Baviera (dal 15 al 24 luglio e dal 16 al 21 agosto, NdR), ma se non mi passa neanche per la testa di dire a un Marcell Jacobs o a un Gianmarco Tamberi di finalizzare la preparazione a un Europeo, ad altri atleti suggerisco invece di privilegiare proprio questa manifestazione. Una parte importante del mio lavoro oggi consiste nel definire la stratificazione degli obiettivi in funzione del livello dell’atleta.

Ph. di filip bossuyt from Kortrijk, Belgium – 532 tamberi na de 2m33, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=47873644

Marcell Jacobs è campione olimpico, non può non andare a difendere il suo titolo a Eugene, nella tana del lupo dove troverà gli statunitensi inferociti. Tamberi vuole vincere il mondiale outdoor perché è l’unico titolo che gli manca e che gli permetterebbe di diventare il primo saltatore a realizzare un grande slam fatto di titolo continentale e mondiale all’aperto e al chiuso e oro olimpico. Per questa categoria di atleti l’affollamento del calendario è un problema relativo, perché sono comunque guidati da un singolo obiettivo stagionale.

Ph. di Unknown – https://www.governo.it/en/articolo/olympic-gold-pm-draghi-congratulates-tamberi-and-jacobs/17567, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=116208567

Ci sono poi gli atleti più giovani, l’ossatura di una squadra che potrebbe arrivare fino a Los Angeles 2028, ai quali negli incontri e raduni svolti tra novembre e gennaio ho chiesto di concentrarsi proprio sugli Europei utilizzando le altre manifestazioni come occasioni per fare esperienza.Nadia Battocletti a Tokyo è arrivata settima  nei 5000, a Parigi avrà 24 anni e a Los Angeles 28. Ha tutto il tempo di preparare le prossime due edizioni dei Giochi per arrivarci da protagonista e allo stesso tempo togliersi delle soddisfazioni a livello continentale. Discorso analogo vale per Lorenzo Patta, oro a Tokyo con la 4×100 ma ancora giovanissimo, classe 2000. Lo stesso Filippo Tortu, che trattiamo da veterano, non ha ancora 24 anni.

Un’altra necessità che si impone quindi al direttore tecnico è quella di saper guardare lontano senza farsi schiacciare dalle contingenze imposte da calendari sempre più frenetici. In una parola, bisogna saper contestualizzare ogni evento in funzione della tipologia di atleta preso in considerazione.

In che modo l’allenatore può aiutare l’atleta a mantenere il focus sull’obiettivo principale senza farsi distrarre dalla visibilità offerta dagli innumerevoli appuntamenti minori e -altro tema completamente nuovo per il nostro ambiente- dagli ingaggi e premi in denaro?

Io cerco di essere molto pragmatico: ci sono atleti ai quali la natura offre l’opportunità di puntare al massimo, di lasciare un segno nella storia della loro specialità, che vanno aiutati a comprendere le proprie specialità e a rimanere concentrati sul bersaglio grosso senza farsi distrarre dal successo e dal denaro. Il vero campione è quello che ha sempre fame, che vuole vincere un’Olimpiade, e poi quella successiva, e poi ancora. A quante edizioni dei Giochi ha partecipato Federica Pellegrini? Cinque. Quanti titoli italiani ha vinto? Centotrenta. È chiaro che solo una passione fortissima ti può sostenere lungo un percorso del genere. La volontà di scrivere, di diventare la storia. Non si potrà mai più parlare di nuoto senza parlare di Pellegrini, di Gregorio Paltrinieri, di Novella Calligaris. 

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E allora a noi tecnici spetta di valutare realisticamente quale può essere la carriera del nostro atleta: se ha l’opportunità di puntare al massimo lo dobbiamo sostenere a qualsiasi costo e con ogni mezzo necessario. Se questa opportunità non c’è lo dobbiamo aiutare non ad accontentarsi ma a dimensionare correttamente i suoi obiettivi per evitare demotivazione e frustrazione. Ti dico sinceramente che qualche anno fa non ti avrei mai fatto un discorso del genere, ma l’età e l’esperienza aiutano a diventare più onesti con sé stessi e con i propri atleti. C’è questa immagine molto romantica dell’allenatore che aiuta l’atleta a coltivare i propri sogni. Questo è importante, ma altrettanto importante è chiedergli con molta franchezza: a quali sacrifici sei disposto per realizzare questi sogni? Quanta passione ci metti? Quanta convinzione e consapevolezza mi trasmetti? Chiariti questi punti, lo posso aiutare impegnandomi al massimo per diventare il miglior allenatore possibile. Atleti top oggi richiedono necessariamente allenatori top.

Il nuoto italiano sta vivendo una fioritura senza precedenti: nel settore maschile siamo competitivi praticamente in ogni stile e distanza e anche in quello femminile, pur scontando la voragine scavata dal ritiro di Pellegrini, possiamo contare su diverse atlete ai vertici mondiali. Per gli atleti e i tecnici di prima fascia il Covid si è tradotto nell’opportunità di avere piscine e palestre a propria completa disposizione e quindi, paradossalmente, di allenarsi meglio rispetto a prima della pandemia. Anche nell’atletica leggera avete vissuto una situazione del genere? E quali sono invece le prospettive di medio periodo a seguito di questi due anni di interruzione dell’attività di base?

Confermo che anche per i nostri atleti di interesse nazionale la pandemia non ha provocato alcun danno alla preparazione, che anche nei casi meno fortunati non si è interrotta per più di due settimane. Il diradarsi degli impegni (gare, eventi, sponsor…) ha poi consentito di dedicare ancora maggior tempo all’allenamento e al miglioramento della tecnica con i risultati che abbiamo visto. Gli atleti che hanno davvero sofferto sono stati quelli troppo dipendenti dal proprio allenatore, che non sono stati in grado di allenarsi in autonomia nelle prime settimane di Covid. Chi è rimasto concentrato, chi ha saputo improvvisare allenandosi in situazioni e contesti inusuali ha sfruttato invece questa opportunità per crescere come sportivo e come persona.

Una volta tornati a gareggiare, molti hanno beneficiato della minore pressione. Io non so come sarebbero andate le Olimpiadi con il pubblico. Se per Tamberi posso affermare con sicurezza che sarebbe stato meglio, non me la sento di dire la stessa cosa per altri. Il contesto di Tokyo era simile a quello di un campionato italiano assoluto, con un migliaio di persone sugli spalti: questo, specialmente per i più giovani, è stato indiscutibilmente un vantaggio.

Quindi, come per il nuoto, anche l’alto livello dell’atletica italiana non ha subito danni dalla pandemia. Ci troviamo invece di fronte a un autentico dramma cognitivo motorio della generazione 11-15 anni che si è trovata sostanzialmente chiusa in casa per due anni. Perché è vero che stiamo beneficiando di un autentico boom, con un incremento del quaranta per cento delle iscrizioni alle scuole di atletica, ma è altrettanto vero che questi ragazzi hanno perso consuetudine con le prassìe motorie, con la pratica sportiva, devono riacquisire delle skill generali. Stiamo raccomandando a tutti i nostri tecnici di non farsi prendere dalla fretta o dallo sconforto, ma certamente c’è un buco che va colmato.

Un quindicenne che esce dall’adolescenza ed entra nella pubertà, rimanendo fermo in questo periodo delicato di modifica della struttura e del funzionamento del proprio corpo non riesce a sviluppare una serie di adattamenti che si possono ottenere solo con la pratica. Le conseguenze sono un maggiore rischio di infortuni e un bagaglio motorio con pochi indumenti. Non dimentichiamo poi le difficoltà psicologiche sociali e di relazione determinate dalla progressiva disabitudine al confronto e alla competizione. In questo senso è auspicabile la massima collaborazione fra tecnici di tutti gli sport, senza timore di rubarsi gli allievi da una disciplina all’altra, perché innanzitutto bisogna formare giovani atleti, che poi diventeranno nuotatori, podisti, pallavolisti, sollevatori di pesi… Se ci dimentichiamo questo non rendiamo un buon servizio alla collettività.

Parliamo di tecnici. Ci preoccupiamo giustamente degli atleti, ma un altro danno enorme subito dalla comunità del nuoto è la dispersione di una generazione di istruttori e allenatori che hanno cessato l’attività per dedicarsi a impieghi magari meno stimolanti ma più stabili. È un problema che fronteggiate anche nell’atletica? E nel caso quali iniziative state adottando?

Certamente sì. Se è vero che la pandemia si è in parte trasformata in opportunità, con la diffusione delle videoconferenze e la creazione della piattaforma federale Atletica viva che ci ha consentito di mantenere e in alcuni casi di migliorare la comunicazione con i tecnici rimasti, è altrettanto vero che moltissimi di loro, per le medesime ragioni dei colleghi del nuoto, hanno abbandonato l’attività.

Anche in queso caso bisogna essere visionari e lanciare una nuova sfida: ogni anno escono dalle nostre università migliaia di laureati in Scienze motorie. Se smettessimo di guardarci con reciproca diffidenza e lanciassimo una santa alleanza basata sulle potenzialità reciproche potremmo ottenere grandi risultati anche in questo ambito. Quindi finiamo di dire che i laureati in Scienze motorie non sanno fare nulla perché non è vero, finiscano loro di accusare i tecnici formati dalle Federazioni di scarsa cultura e si mettano insieme esperienza e scienza per far crescere l’intero movimento sportivo. Con l’esplosione di conoscenze e di condivisione delle stesse alla quale abbiamo assistito negli ultimi anni grazie alle nuove tecnologie mi pare un’occasione e un’opportunità irripetibile.

Per rimanere competitivi è indispensabile saper conciliare l’occhio esperto del tecnico, penso sempre al mai abbastanza rimpianto Alberto Castagnetti, con una mole di dati ed evidenze scientifiche dalle quali ormai non è più possibile prescindere. Se due anni fa non ci fossimo recati in Giappone per studiare con i nostri ricercatori gli effetti sui nostri atleti del caldo e degli adattamenti al fuso orario, a Tokyo non avremmo certamente ottenuto i risultati che tutti conoscono. È vero che la prestazione finale poi dipende anche dalla fortuna, ma è altrettanto vero che la fortuna ti aiuta se la cerchi; se resti fermo ad aspettarla è difficile che arrivi.

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Tornando al tema dei calendari sovraffollati: molti degli azzurri che hanno ottenuto performance di alto livello ai recenti assoluti hanno individuato proprio nel gran numero di gare disputate nel 2021 un elemento fondamentale nella costruzione di un corretto approccio mentale alla gara. Questo va un po’ in controtendenza rispetto a una mentalità ancora molto diffusa tra i nostri tecnici, secondo i quali troppe gare distraggono e creano discontinuità nella preparazione, mentre l’atleta deve imparare a concentrarsi su uno o due grandi obiettivi stagionali. Cosa ne pensi?

Certamente rispetto a qualche anno o decennio fa oggi sappiamo molte più cose sui tempi di recupero e sulla sopportabilità del carico. Soprattutto, abbiamo evidenza che la prestazione di alto livello è essa stessa uno stimolo allenante. Nicolò Martinenghi ha detto di recente una cosa molto interessante: ha smesso di farsi troppe paranoie e ha imparato a competere ad alto livello in tempi ravvicinati.

Questo non significa rinnegare una tradizione di allenamento basato su macro obiettivi, ma aggiornare la lezione dei nostri maestri che rimane peraltro a mio avviso pienamente valida quando si parla di giovani, con i quali le forzature, di qualsiasi genere, prima o poi portano all’abbandono. Anche questa regola naturalmente ammette delle eccezioni: quando ci si trova davanti fenomeni anche di precocità come Federica Pellegrini o Benedetta Pilato non gli si può certo dire di tirare il freno a mano. Nella norma tuttavia è indispensabile il rispetto dei tempi di sviluppo. Lo stesso Jacobs a livello giovanile non ha vinto praticamente nulla, e oggi ha al collo due ori olimpici.

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Per tornare ai maestri, non posso non pensare con curiosità a come Castagnetti o il nostro Carlo Vittori avrebbero affrontato questa sfida dei calendari compressi. Compressione che, ricordo, è iniziata prima della pandemia e autonomamente da essa. Siamo passati da una situazione in cui all’interno del quadriennio olimpico si alternavano due edizioni dei Campionati europei e null’altro all’introduzione dei Mondiali -per il nuoto nel 1975, per l’atletica nel 1983- outdoor e indoor, alle varie World cup e Leghe. È un’evoluzione che conviene alle Federazioni internazionali, che possono aumentare i ricavi e conseguentemente gli investimenti sull’attività istituzionale, e agli atleti stessi, che hanno maggiori opportunità di visibilità e guadagno. Atleti che, e i risultati di questi anni lo confermano, hanno dimostrato di essere più che disposti a sacrificarsi maggiormente in cambio di un riscontro anche economico. Noi tecnici li abbiamo accompagnati e, sulla base delle evidenze che citavo poc’anzi, abbiamo scoperto che è possibile raggiungere più picchi di forma durante l’anno, avvicinandoci alla realtà degli sport professionistici: pensiamo a quante partite giocano oggi rispetto al passato un calciatore di un club di prima fascia o un giocatore di una franchigia NBA, che scendono in campo due o tre volte la settimana e quindi non cercano il 100% della forma in poche occasioni, ma di restare tra l’85 e il 90% nel corso dell’intera stagione.

Credo che la novità più importante in realtà non stia tanto nell’allenamento fisico ma in quello mentale. È sempre più evidente che la performance sportiva dipende prima di tutto dal mindset. Penso spesso che mi piacerebbe essere nella testa di Federica Pellegrini per individuare il circuito che le ha permesso di rimanere concentrata per venti anni sui suoi obiettivi agonistici. È un campo di studi ancora pionieristico, ma oggi si lavora per innalzare la soglia dell’affaticamento non solo fisico ma anche, e direi soprattutto, mentale. Il cervello va allenato. Storie come quella di Pellegrini, di Michael Phelps, di Usain Bolt: atleti rimasti competitivi ad altissimo livello nel corso di due decenni ci hanno costretto a rimetterci in discussione e a tornare a studiare, per comprendere cosa gli ha permesso di sottrarsi a quelle che sembravano leggi ineluttabili del decadimento prestativo nel tempo. Abbiamo più strumenti di controllo dell’allenamento grazie alla tecnologia, abbiamo migliori conoscenze sulla nutrizione, poniamo maggiore attenzione al recupero anche integrando massofisioterapia e altre nuove tecniche.

Ph. di Erik van Leeuwen, attribution: Erik van Leeuwen (bron: Wikipedia). – www.erki.nl, GFDL, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16375547

Hai citato la NBA, la principale lega di basket del Nord America, come esempio e limite della direzione che ha preso lo sport di alto livello, con giocatori che tra regular season e playoff possono arrivare a giocare centodieci partite nell’anno solare. Proprio la NBA però da qualche stagione si trova a gestire risultati condizionati non tanto dalla qualità delle singole squadre ma dalla quantità di infortuni che si trovano a fronteggiare, con moltissimi top player fermi ai box. Quanto siamo distanti da questo limite?

In effetti il tema dell’overuse nello sport di alto livello fa ormai parte della quotidianità e non credo si possa tornare indietro: i ritmi imposti da Federazioni, sponsor, media sono letteralmente infernali. A maggior ragione vale quindi il discorso che facevo all’inizio: diventa fondamentale saper selezionare gli appuntamenti. Non si può fare tutto. Più sale di livello, più l’atleta deve diventare selettivo. Selettivo anche nelle motivazioni, che non possono essere solo economiche. Non sono certamente più i soldi a spingere atleti come Cristiano Ronaldo, ma l’ossessione per l’eccellenza: la volontà di raggiungere e rimanere al vertice.

È in questa direzione che l’atleta va progressivamente indirizzato, sempre, lo ripeto, facendo attenzione a valutare correttamente chi si ha di fronte e condividendo con lui obiettivi e criteri di scelta.

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