L’illusione della meritocrazia

Negli ultimi anni gli sportivi sono diventate le star indiscusse della formazione aziendale: si perde il conto di allenatori e atleti che, appesi cronometri e divise al chiodo, intraprendono una brillante carriera come relatori e autori di libri e podcast seguitissimi. Dall’apripista Julio Velasco a Sandro Campagna, da Yuri Chechi Andrea Zorzi. All’estero spopolano Bob Bowman e Dara Torres, solo per rimanere in ambito natatorio (Poi c’è anche chi sportivamente ha fallito su tutta la linea e si ricicla come mental coach o motivatore, ma non è questo il tema e sarebbe inelegante fare nomi. Ci torneremo, nel frattempo tenetevene alla larga).

In prima battuta le ragioni appaiono evidenti e condivisibili: lo sport è rispetto delle regole, uguaglianza, pari opportunità, amicizia, fair play. Ma se si gratta un po’ la superficie si scopre che lo sport di alto livello veicola una serie di messaggi perfettamente funzionali al modello socioeconomico dominante: ossessione per il risultato, impegno sette giorni su sette ventiquattro ore al giorno, competitività spinta all’estremo. Tutte circostanze sopportabili per un atleta che punta volontariamente e consapevolmente all’oro olimpico, ma tremendamente lesive se calate nel contesto di una vita lavorativa e relazionale normale.

Oggi invece si dà per scontato il transfer tossico per cui un rider o un impiegato di banca dovrebbero profondere nella consegna di un kebab o nella vendita di una polizza la stessa dedizione di Michael Jordan all’inseguimento del sesto titolo NBA.

Che poi: provate a rivedere con attenzione proprio The last dance, la docuserie che racconta l’ultima stagione del più grande cestista di sempre: ne esce il ritratto di un individuo miserabile, divorato dalla sua stessa competitività, totalmente disfunzionale fuori dal rettangolo di gioco, disposto a scommettere anche sulle corse delle lumache per soddisfare la sua dipendenza da adrenalina, irrimediabilmente schiavo dell’icona stampata sulle Nike di mezzo mondo. Ho sperato fino all’ultima puntata che qualcuno gli chiedesse: Michael, ne valeva davvero la pena?

E soprattutto: perché prima di questo genere di trasmissioni nessuno pubblica un disclaimer gigantesco: attenzione, questa trasmissione può indurre survivorship bias?

Perché continuare a proporre come modello di vita le biografie di sportivi di questo livello porta con sé due ordini di problemi. Il primo, appunto, il pregiudizio del sopravvissuto: dato che ogni sportivo di successo ha alle spalle una storia di duro lavoro e abnegazione, passa il messaggio che duro lavoro e abnegazione siano sufficienti a garantire la vittoria, ignorando le storie delle migliaia di atleti che, pur lavorando altrettanto duramente, non ce l’hanno fatta per mancanza di talento, fortuna o salute. Il messaggio che trafila al pubblico è devastante: se non hai successo è solo perché non ti sei impegnato abbastanza.

E qui arriviamo al secondo ordine di problemi: l’illusione della meritocrazia. Meritocrazia è un neologismo coniato nel 1958 dal sociologo britannico Michael Young, non però in un saggio accademico ma in un romanzo distopico che descrive una società tremendamente violenta e diseguale nella quale la posizione sociale di un individuo dipende dalla sua attitudine al lavoro e al suo quoziente intellettivo (altro parametro illusorio e inattendibile, ma non apriamo troppe finestre).

Non c’è da stupirsi che un concetto del genere affascini le classi produttive e dirigenti, che nel tempo lo hanno fatto proprio edulcorandolo nella fiaba per cui qualsiasi ruolo o professione che richieda responsabilità nei confronti di altri può essere affidato secondo criteri di merito, e non di appartenenza a lobby, o altri tipi di conoscenze familiari  o di casta economica, quando in realtà è esattamente ciò che accade.

La letteratura in materia è sterminata, mi limito a citare una ricerca di Guglielmo Barone Sauro Mocetti  che descrive come le famiglie più ricche di Firenze nel 2011 erano le stesse dal 1427. Il fantomatico ascensore sociale rimane bloccato al piano terra per chi non può contare su una famiglia facoltosa, su un’istruzione di qualità, su un’alimentazione adeguata.

Che c’entra tutto questo con lo sport? C’entra un bel po’, se è vero com’è vero che uno studio pubblicato nel 2013 dalla National Hockey League degli Stati Uniti mostra come 350 giocatori della lega erano nati nei primi tre mesi dell’anno contro solo 150 negli ultimi tre. Questo semplicemente perché la soglia per accedere al primo anno di scuola hockey era fissato al primo gennaio, quindi i bambini più grandi anche di pochi mesi avevano più tempo a disposizione per imparare a giocare, allenarsi, competere.

Allora continuiamo a cercare, individuare e valorizzare il talento, ma in un quadro di consapevolezza. Gregorio Paltrinieri e Simona Quadarella si sono sudati e meritati ogni milligrammo delle loro medaglie d’oro, ma la fatica e l’impegno non sarebbero stati sufficienti se la natura non li avesse dotati di carrozzerie e motori di prim’ordine o, semplicemente, se fossero nati in famiglie che non avevano le possibilità economiche di mandarli in piscina.

Insistere sul merito come unica variabile dalla quale dipende il successo sportivo, oltre ad essere banalmente una falsità clamorosa, rischia di creare frustrazione e avvilimento in migliaia di atlete e atleti che hanno come unica colpa quella di non essere nati nel posto, al momento o dai genitori giusti. E può risultare logorante anche per gli atleti d’élite, che sempre più spesso avvertono il bisogno di staccare la spina, da Simone Biles Naomi Osaka Caeleb Dressel.

Ph. ©Deepbluemedia

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