Accogliere la motivazione degli atleti: con umiltà e senza pregiudizio.

Nella relazione con l’atleta c’è un’area che bisogna trattare con particolare cura: quest’area si chiama MOTIVAZIONE; e’ importante avvicinarla con umiltà e senza pregiudizio, accettando talvolta di poter avere solo un contatto indiretto.

Nella fase di analisi della situazione iniziale, l’atleta ci offre infatti il “suo” racconto e la “sua” percezione del momento presente, dei motivi che lo hanno portato alla richiesta d’aiuto e di quelle che sono le criticità o talvolta i problemi che avverte. Il nostro e’ quindi inizialmente un lavoro piuttosto “deduttivo”, che attraverso piccole “riformulazioni”(ripeto con parole mie ciò che ho appena ascoltato) ci permette da un lato, di creare relazione e fiducia con il nostro interlocutore e dall’altro, di “capire” che abbiamo capito, in un processo che vede l’atleta sempre al centro. Quest’ultimo, pur essendo l’esperto del problema (il suo), talvolta non ne conosce i motivi e non riesce quindi a rispondere a quella semplice domanda che psicologi, allenatori e genitori non dovrebbero mai fare: “PERCHÉ?”.

Chiedere all’atleta “perché” si senta meno motivato non e’ sempre utile: potrebbe non saperlo, potrebbe sbagliarsi, potrebbe avere ragione da un punto di vista causa-effetto, ma non per questo riuscire a “reagire” gestendo le emozioni che lo bloccano.

E’ fondamentale quindi lasciare e lasciarsi il tempo per esplorare alcune variabili fondamentali: il livello di fiducia interna e l’assetto emotivo attuale, comprendendo “insieme” all’atleta se l’ambiente esterno venga percepito come una “risorsa” o come una “minaccia “.

La sfida in questo genere di approccio e’ proprio quella di accreditare, legittimandolo, il vissuto dell’atleta, senza la pretesa di rendere oggettivo quello che invece può essere solo fortemente soggettivo, favorendo così un approccio empatico ed accettante capace di avvicinare l’atleta “così com’è” e “lì’ dove si trova”.

Abbiamo detto che solo riuscendo ad avvicinare l’atleta “così com’è” e “lì’ dove si trova”, senza giudizio o pregiudizio, avremo la possibilità di sostenerlo, favorendo l’esplorazione di nuovi punti di vista utili alla ripresa.

In sintesi, ciò che davvero ha l’ultima parola e’ la “percezione”del protagonista in riferimento alla propria esperienza sportiva.

Una seconda trappola molto frequente in tema di motivazione e’ il tentativo di “etichettare” le motivazioni in buone e meno buone: pur essendo utile farci un’idea “descrittiva” sulla qualità intrinseca od estrinseca della motivazione attuale dell’atleta, non è utile dare un giudizio di valore ; la motivazione infatti è un processo dinamico e nel momento di crisi ci serve qualsiasi “ancoraggio”motivazionale residuo, anche il più estrinseco, da utilizzare “insieme” all’atleta come nuovo avamposto per il futuro assetto in divenire.

Nella mia esperienza professionale, l’incremento o il calo motivazionale dell’atleta, può essere considerato molto spesso una “conseguenza” di qualcosa che, in modo più o meno visibile, immaginato o agito, ha già avuto luogo (per esempio: vissuti di insuccesso, umiliazione, paura di deludere o sentire di aver deluso, timore di sbagliare, obiettivi sentiti come non sostenibili, mancanza di recupero, etc). Per contro, provando a spostare il nostro punto di osservazione, possiamo anche considerare la spinta motivazionale come il “punto zero” di una nuova curva e quindi, in tal caso, come una causa.

Diventa allora più chiaro quanto sia rilevante aiutare l’atleta ad “interagire” in modo efficace con gli aspetti emotivi che successi ed insuccessi inevitabilmente producono nella sua interiorità.

Dialogare in modo “orientato” e flessibile con l’atleta, “facilitando” la sua capacità di connettere emozioni, convinzioni ed obiettivi, costituisce quindi una STRATEGIA a lungo termine per favorire la sua autonomia così come la sua possibilità di sentirsi efficace nei confronti dei futuri traguardi. In quest’ottica naturalmente, la performance e’ una naturale conseguenza.

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Ph. ©G.Scala/Deepbluemedia

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