Ne vale la pena

Un’altra stagione sportiva è alle porte, sicuramente carica di emozioni sull’onda dei risultati indiscutibilmente di altissimo profilo ai campionati europei di Roma, non solo per il numero di medaglie ma soprattutto per la qualità e la solidità espressa dalla nostra nazionale punta dell’iceberg del movimento natatorio.

Per molti atleti, famiglie e addetti ai lavori la pausa estiva è stata un momento di analisi e riflessione per l’ennesimo – per qualcuno il primo – anno di sport: ne vale la pena?
Un anno di allenamenti, spostamenti, quote, trasferte.. “sacrifici”. Spesso le cronache quando devono elevare l’atleta sottolineano questo aspetto, il sacrificio. Ed è forse il motivo di una cultura sportiva, per così dire, fragile in Italia: “sacrificio” è un concetto negativo, sicuramente poco entusiasmante se non ti chiami San Francesco.

Ma per lo sport si fanno sacrifici? Una mamma e un papà fanno sacrifici per i loro figli o delle scelte per amore? Un giovane studente per laurearsi fa dei sacrifici o delle scelte per un obiettivo? Un allenatore dedica la sua vita ai propri atleti per sacrificio o per passione?

Quando mia mamma mi dava 500 lire per fare merenda al chiosco dei giardini sotto casa, potevo scegliere tra le patatine o il gelato, quale dei due non avessi mangiato sarebbe stato la conseguenza di una scelta, non un sacrificio (indubbiamente li avrei voluti entrambi). Quando un ragazzo sceglie di fare sport implicitamente sceglie di fare meno tardi la sera prima di un’allenamento del mattino o di una gara: se non ne fosse consapevole nell’immediato, lo sarà nel futuro e potrà comunque fare una scelta diversa, ma restano scelte non sacrifici. Se nella sua vita dedicherà più tempo allo sport rispetto ai suoi coetanei, lo farà per degli obiettivi – soggettivi ed insindacabili – che lo motiveranno a proseguire nel suo percorso fino a quando non prenderà strade diverse.

Alla fine della scorsa stagione mi sono reso conto che negli ultimi 40 anni per un terzo sono stato atleta, un terzo tecnico ed un terzo genitore. Come tecnico le scelte sono sempre state e sempre saranno orientate all’atleta. Ogni metro di allenamento, ogni ora passata sul piano vasca (su una pista di atletica o ovunque si pratichi la disciplina), ogni iscrizione ad una gara, hanno sempre come obiettivo il raggiungimento del miglior risultato, che può anche non essere puramente prestativo ma – spesso – trasversale allo sport praticato, perché “formare” un atleta non significa allenare un nuotatore, ma è molto di più: formazione, analisi, discussioni, allenamenti, un percorso estremamente lungo e complesso ma non determinato da “sacrifici” bensì da scelte consapevoli e ragionate – quasi sempre.

Ma il ruolo più complesso è da genitore: è un percorso che deve essere parallelo al figlio/atleta, come un guard-rail che segna dei confini ma permette di spostarsi tra le corsie e di imboccare degli svincoli, il genitore dovrebbe aiutare l’atleta ad interpretare il percorso che gli si pone davanti, supportandolo, sostenendolo e cercando di consolidare il rapporto di fiducia che deve instaurarsi tra atleta – tecnico – società, tenendo sempre presente che questo percorso tracciato anche da enti e federazioni nasce per gli atleti, con le caratteristiche e gli stimoli ponderati per bambini, ragazzi o adulti che lo praticano.

Ne vale la pena? Per me assolutamente sì: rifarei e consiglierei il percorso che ho vissuto attraverso lo sport a chiunque, anzi come atleta o tecnico anche con traguardi decisamente più importanti e ambiziosi ma come genitore sono felice di avere due figlie che fanno sport e che crescendo cominciano a capirlo, apprezzarlo e comprenderne gli insegnamenti.

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