Sportmanship is greater than victory

Tre immagini di Luigi De Breda Handley.

Sportmanship is greater than victory” più di un secolo fa si leggeva dai bordi della piscina del New York Women Swimming Club. Lo aveva fatto scrivere a caratteri ben visibili il più originale, romantico, patetico, sofisticato sportivo che il mondo avesse conosciuto. Un uomo che se alla sua epoca poteva apparire un po’ eccentrico,  oggi sarebbe considerato uno strambo assolutamente incomprensibile.

Luigi de Breda Handley

Luigi De Breda Handley era olimpionico di nuoto e di pallanuoto. Era stato campione americano delle 440 iarde e vincitore di molti campionati di waterpolo, prima coi Knickerbocker di New York, poi col New York Athletic club. Era anche un podista, un calciatore, un cavaliere, un canottiere, un velista, un ciclista e un pentatleta. A pallanuoto era famoso per il “Salmon Leap“, un tiro in elevazione inventato da lui che sconcertava gli avversari. Nel nuoto era stato il più fine teorico dell’ “American Crawl” e aveva portato al successo, insieme a Otto Whale, la prima grande star del nuoto americano: Charles Meldrum Daniels. Oltre a questo era istruttore, il più famoso del suo tempo, e allenatore, tra l’altro convocato ad Aversa nel 1920 e a Parigi nel 1924 con la squadra USA. Aveva anche scritto molto di nuoto: numerosissimi articoli, la voce “swimming” dell’Enciclopedia Britannica e cinque libri. Inutile dire che faceva pure il giornalista ed era istruttore di cani, animali che amava moltissimo.

cittadino vaticano

Luigi, nonostante risultasse americano, era italianissimo, come la madre, da cui aveva preso il cognome De Breda. A dire il vero, più che italiano, era cittadino del piccolissimo stato del vaticano. Infatti era nato a Roma nel 1874, dopo l’unità d’Italia e la presa di Porta Pia, ma quando ancora regnava l’ultimo papa re Mastai Ferretti, meglio conosciuto come Pio IX. L’americano era il padre, l’artista Francis Montague Handley, che due anni dopo la sua nascita era diventato maggiordomo privato di un altro papa, Leone XIII, papa della “Rerum Novarum”, carica che conservò anche con il successore Pio X.

nel Tevere

L’arte del nuoto, che destreggiava con abilità, Luigi l’aveva imparata nel Tevere, quando il fiume di Roma era ancora incontaminato da qualsiasi inquinamento. Al suo tempo, infatti, era l’unico modo per nuotare, dato che nella capitale non esistevano piscine. In America c’era arrivato a 22 anni, partito per seguire la sorella Mary, che era suora e che era diventata superiora in un convento negli Stati Uniti. Una volta lì si era subito buttato sulle discipline acquatiche, che prediligeva.

WSA

Oltre ad allenare il New York Athletic club, la squadra in cui militava e per cui vinse il tiolo olimpico 1904 di pallanuoto e la staffetta 4×50 iarde degli stessi Giochi, fu ispiratore della NY Women Swimming Association, il primo club di nuoto femminile d’America. Lo allenò indistintamente per 40 anni, senza mai percepire nessun tipo di compenso. Le sue nuotatrici, miti del nuoto ed eroine del femminismo, come Ethelda Bleibtrey, Aileen Riggin e Gertrude Ederle, ottennero con lui la bellezza di 51 record mondiali, oltre 200 titoli americani AAU individuali e 30 di staffetta.

sportività

La “Sportività” , così cara ad Handley, era il nome del sogno di tutti gli amateur come lui, così come l'”imbattibilità” poteva esserlo per i professionisti. Era la stoffa del gentiluomo e quindi dell’atleta. Per questo non rinunciò mai ad insegnarla.

Un opzione

Anche per noi sportività potrebbe essere un opzione. Ci consentirebbe di guardare negli occhi con simpatia anche chi ci ha appena battuto. Ci darebbe l’opportunità di far battute spiritose sulle nostre sconfitte. Impedirebbe di prenderci troppo sul serio, evitando la figura del pallone gonfiato. Insegnerebbe ancora che il vero campione non ha bisogno di parole, perché ha l’esempio. farebbe capire quant’è penoso trafficare nelle regole per ottenere vittorie immeritate e stupido cercare scuse quando le cose non vanno come si vuole.

Antidoto

Sportività, come dilettantismo, sarebbe ancora l’antidoto alle diverse malattie che avvelenano lo sport: il narcisismo, l’affarismo, il divismo, le incursioni dei potenti, l’egemonia dei soldi, l’eccessiva medicalizzazione, la perversione negli intenti e nei fini che viene dal farne uno spettacolo. Sarebbe il segno che per l’uomo c’è sempre il limite e che la vittoria, seppur bella, non può essere mai “ad ogni costo”. Ci insegnerebbe anche a non perderci e a non farci troppo male, amaramente danneggiati dal nostro seppur lodevole tentativo di essere felici.

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