L’importante è partecipare.

una frase da mettere con tutto.

Ci sono frasi che in qualche modo “spaccano” e te le trovi dappertutto. Sono entrate, non si sa come, non si sa perché e diventano un ossessione.  “L’importante è partecipare” è una di queste. La sanno tutti, la citano tutti, viene fuori sempre. Normalmente a sproposito. Gli si fa dire tutto e il contrario di tutto. E’ tra le più fraintese, stravolte, travisate, proposizioni della storia. Il sentirla produce un’immediato e poco gradevole sentore di banalità.

Frase Tronca.

Tra l’altro viene sempre citata tronca. “L’importante è partecipare” oppure “L’importante è partecipare, non vincere”. Manca sempre la parte che spiega. Così si pensa di usarla per negare l’agonismo, per consolare l’insuccesso, per gratificare la mediocrità, per millantare una comprensione dell’Olimpismo.

La citazione completa.

La citazione completa, divenuta principio olimpico, consta di due parti. La prima parte fa da premessa. La seconda parte è quella assertiva:

“In questi giochi, l’importante è partecipare non vincere, come la cosa più importante nella vita non è il trionfo ma la lotta. L’ essenziale non è la conquista ma essersi ben battuti“… 

La premessa è “in questi giochi“, quindi lì, dove tutto il mondo si riunisce a celebrare l’olimpismo, ogni quattro anni, tra la gioventù più in gamba del pianeta. Lì è importante partecipare, non altrove. La seconda parte invece afferma la tesi principale: “la cosa più importante è la lotta. Come nella vita. In greco lotta è “Agon”, il termine che indica il competere in tutto dei cittadini della polis per affermarsi. Come si può dire che questa frase è contro l’agonismo, o che abbia l’intenzione di attenualo?

Essersi ben battuti

L’essenziale però è “essersi ben battuti”. C’è quindi un modo cattivo e un modo buono di battersi. Il modo cattivo è il modo di chi combatte per conquistare, per annientare, per far fuori l’altro. E’  cattivo, perché distrugge il vincitore, lo peggiora, rendendolo meno umano.

Battersi bene

Il modo buono per battersi invece migliora. Rende l’uomo più uomo. Anche il modo buono è connesso alle intenzioni. E’ il modo di chi compete senza la necessità di essere riconosciuto, perché conosce già il valore di quello che fa. E’ il modo di chi sa che nel combattere c’è qualcos’altro da affermare oltre se stessi, un significato che solo la dedizione e l’impegno può far affiorare. Il modo buono contiene anche l’idea che non si può rinunciare a questa ricerca e che occorre ripartire ogni volta. E’ un contenuto condiviso con le arti provenienti dall’oriente. Il combattimento come via. Può essere la via della spada (Ken Do), la via della cedevolezza (Ju Do), o la via che conduce all’armonia dello spirito (Ai Ky Do). Ogni via può portare alla meta, che è trovare se stessi. Ci si può arrivare solo se se si è disposti ad andare fino in fondo, fino all’ultima conseguenza.

Il migliore non vince

C’è un altro contenuto in questo aforisma, meno evidente. E’ la consapevolezza che non sempre vince il migliore. Anzi. Sono 3000 anni che l’uomo si chiede perché. E’ una domanda che si ponevano i greci nel mito, nella tragedia e nella filosofia, che si poneva Giobbe, Qoelet, il nuovo testamento. E’ una domanda presente nella migliore letteratura di sempre.

La vittoria

E allora, cos’è la vittoria? Il nostro mondo ha smesso di chiederselo. Si accontenta dell’etica del capitalismo. Il successo come premio del predestinato. Chi vince, con qualunque mezzo, è il migliore per forza. Il primo è più del secondo, il secondo vale più del terzo. Anzi il primo vince, tutti gli altri perdono. Nessuno scrupolo. Nessuna indagine. Nessun pensiero.

Vincere per un centesimo

Nel nuoto, e in molti altri sport, per esempio, si vince e si perde per un centesimo. Esiste il centesimo? Per la capacità discriminativa dell’uomo, non esiste. L’occhio non lo vede. Non è un segno di una prestazione. In cosa è più forte uno che in una gara di nuoto fa un centesimo in meno? Si è allenato meglio? Ha voluto di più? Nuota meglio? E’ più forte? Il centesimo esiste solo perché la tecnologia lo rappresenta. Perché deve dire che uno è meglio dell’altro, se non è vero?

La fortuna

L’esperienza umana ci dice anche che la vittoria può esser data dalla fortuna e non dal merito. Una squalifica, una malattia, un errore di valutazione. In molti casi è frutto della frode. Il doping, l’imbroglio, la corruzione di un giudice, l’errore di valutazione, l’incapacità di valutare, la condiscendenza col potere, la sudditanza verso il carisma di un atleta…

Il merito

Quindi? cos’è il merito? Chi è che merita di essere riconosciuto? Chi ha più doti? … Ma se una cosa ci è data (è una dote, qualcuno ce l’ha data), dov’è il merito? … E’ quanto uno ci mette?. Ma come si fa a confrontare una realtà con mille sfaccettature? Quello che è alto due metri, ha uno staff di dieci persone, un budget senza limiti, e quello più piccolo, che fa conto su se stesso, che ha l’allenatore che gli capita, perché magari è nato in Palestina e non nel New Jersey o a Catania piuttosto che a Milano.  Chi merita la lode? E come riconoscergliela?

I soliti antichi.

Gli antichi queste cose se le chiedevano. Se le erano sempre chieste. Era più eroe Ulisse, che non torna a casa e perde tutto, o Menelao, che torna indenne, perfino con la donna che ha causato il disastro di tutti. Achille, che non è mai sconfitto, o Ettore, che sa che avrebbe perso  quando si accinge a combattere?.  Gli dei sono capricciosi. Danno la vittoria a chi vogliono. Chi si dice uomo deve saperlo. C’è chi raccoglie senza aver mai seminato e chi semina senza raccogliere mai.

De Coubertin.

De Coubertin era uno che aveva studiato l’antico e amava il moderno. Voleva che i suoi giochi dicessero qualcosa di questo. Ecco perché quella frase. Voleva dire che c’è dell’altro oltre la vittoria. Ci sono altri segni da guardare se si vuole capire il valore dell’uomo. La vittoria è sempre un relativo. E’ precaria, naturalmente. Non rimane. E’ contraddittoria e piena di questioni. Non è mai definitiva. Quindi non definisce. De Coubertin, in fondo era un buon relativista. Sapeva che c’è l’imponderabile e che c’è l’ingiusto. Non voleva dare risposte assolute. Voleva dire qualcosa della verità che lo aveva colpito e che gli sembrava bella. Per questo, nonostante tutti lo celebrassero, alla fine non piaceva mai davvero a nessuno. Anche adesso.

 

 

 

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