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1910: un campionato nazionale sui 200 misti
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1909: Uno strano Campionato del mondo sulla Senna
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Arriva il “Duca” e salva l’american crawl
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1908: una federazione mondiale per gli Amateur
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Daniels e il “Six Beat American Crawl”
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1907: anche in Spagna un campionato di nuoto.
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La tristezza degli Enhanced Games
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Gus Sundstrom e lo Swordfish Glide
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1906: una federazione anche per la Svizzera
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Frank Sullivan e il “Trudgen Crawl” alla Chicago.
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1905: un ungherese a Londra
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Trudgen punto due
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Trudgen
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1904: gare artistiche ai Campionati Italiani
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John Wayne con Keo Nakama, Coach Sakamoto e altri membri della squadra Hawaiana degli anni 40/50: Bill Woolsey, Ford Konno, Dick Cleveland and Bill Smith. Un esempio.
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La questione è semplice. Bisogna formare un uomo perché sia capace di fare una prestazione? Oppure bisogna cercare una prestazione per formare un uomo? Non è una questione di parole. E' il fondamento di una morale sportiva.
L'aspirazione olimpica, il meglio che l'uomo sportivo abbia saputo produrre, dice la seconda. E' l'uomo il centro. Lo sport, anche agonistico, anzi soprattutto agonistico, è il miglior modo per tirarne fuori il meglio. La realtà dei fatti, invece, dice il contrario. L'uomo non conta. Il successo determina il potere e quindi l'importanza da dare allo sport. L'aspetto umano è secondario. Non c'è neanche bisogno di mettere sul piatto esempi estremi come la corruzione nel movimento olimpico o il doping. Basta osservare la prassi o analizzare il pensiero di massa.
La differenza, però, fa la differenza. Se è vera la prima opzione, l'uomo è sostanzialmente un mezzo, non un fine. E' lo strumento per ottenere la prestazione. Se è vera la seconda, il mezzo è invece lo sport, la modalità esistenziale perché l'uomo si esprima. In questo caso il fine è l'uomo. Kant è a posto.
Se la prestazione è il fine ultimo, però, il fallimento dell'individuo è assicurato. Perché ad un certo punto la prestazione individuale viene meno. Non è così per l'istituzione, che può cercarla in un altro soggetto, ma lo è per l'atleta e il tecnico, che quando non sono più in grado di ottenerla, improvvisamente non servono più.
Se il fine è invece l'uomo, il successo individuale è assicurato, perché ci sarà comunque un risultato. Ci sarà per forza qualcosa che risulta dall'esperienza, un plus valore, un prodotto finale uscito dal lavoro di trasformazione che è stato fare l'allenamento e fare la gara per tutto quel tempo.
Un problema potrebbe essere quello del bisogno di un riconoscimento pubblico. Probabilmente per stare nella posizione giusta occorre rinunciarci. Ma forse non è necessario. Forse è sufficiente metterlo in secondo piano. Il riconoscimento privato invece, anche nella sua incertezza, è indispensabile, perché è la ricompensa che consente di agire moralmente.
La soluzione è comunque una questione individuale. Non centra l'associazione, né l'organizzazione. Non centrano regole o dichiarazioni d'intenti. La scelta è sempre individuale e si realizza in ogni singolo atto di ogni singola relazione, tra tecnico e atleta, società e tecnico, istituzione e società. Drammaticamente, come in ogni affermazione del libero arbitrio.
dedicato al mio amico Gianni alla fine di un colloquio significativo.
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